Robinson, 15 gennaio 2022
Rosso Rothko
Esce l’edizione italiana ( Donzelli editore) curata da Riccardo Venturi dei testi di Mark Rothko, Vivere l’arte, scritti 1934-1969 a cura di Miguel Lopez-Rem (originariamente ed. Flammarion 2005). Si tratta di lettere, interviste, appunti, abbozzi di lezioni e conferenze che coprono quasi tutto l’arco creativo del grande maestro americano di origine lituana, nato nel 1903 e morto suicida nel 1970, in circostanze mai chiarite fino in fondo.
Venturi, che di Rothko è tra i massimi esperti internazionali, ha arricchito il libro, rispetto all’edizione francese, di una cospicua serie di ragguagli storico- critici su opere cruciali nonchè di una postfazione in cui, tramite l’analisi di un solo dipinto N. 46 Black, Ochre, Red Over Red, del 1957 (al Moca di Los Angeles, The Panza Collection) formula una lettura globale di Rothko di estrema validità.
Mette, così, a frutto proprio ciò che del pensiero di Rothko si apprende leggendo i testi del libro. Per rubare un titolo famoso del filosofo cinquecentesco Bernardino Telesio, si potrebbe dire Rothko iuxta propria principia.
Non c’è dubbio, allora, sul fatto che Marc Rothko abbia raggiunto e stabilmente mantenuto l’obiettivo che si era prefisso nel suo lavoro e che gli scritti denotano in modo inequivocabile: erigere una sorta di mitologia contemporaneo degna del senso e della grandezza incommensurabile del mito greco antico. Potentemente suggestionato dal Nietzsche della Nascita della Tragedia ( 1872-1886) e dal Kierkegaard di Timore e Tremore (1843), Rothko formula progressivamente una sorta di vera e propria filosofia dell’arte cui attribuisce da un lato valore sapienziale in sé e per sè e dall’altro quello di chiave interpretativa autentica del suo fare assurto a valore universale e emblematico. Colto e sensibile didatta ben radicato alla sua matrice ebraica, attento alla netta separazione tra scandaglio dell’ inconscio e razionalismo analitico, Rothko vede nei due prodigiosi pensatori ottocenteschi un monito e uno stimolo che, nel giustificare appieno la rilevanza del lavoro artistico in sè nella più generale dinamica della società, gli conferiscono un ruolo e una autorevolezza che non competono a nessun altro ambito delle umane attività. Un principio che di anno in anno Rothko annuncia orgogliosamente al mondo intero esprimendosi con un linguaggio misto di incantevole semplicità e di oracolari sentenze degne dello Zarathustra nietzschiano, cui indubbiamente molto dovette e non sempre con esiti felicissimi.
In una intervista del 1956 Selden Rodman gli chiede: «cosa esprimi?» E lui: «sono interessato solo ad esprimere emozioni umane fondamentali- latragedia, l’estasi, l’estinzione e così via- e il fatto che molte persone crollino o piangano quando si trovano di fronte ai miei dipinti è una prova che comunico queste emozioni umane fondamentali». Con una formidabile distinzione rispetto allo spirito romantico, come Rothko spiega in un intervento al Pratt Institute del 1958: «non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l’ espressione di sé. È una comunicazione sul mondo a qualcun altro. Una volta che il mondo ne è persuaso, subisce allora una trasformazione. Il mondo non è stato lo stesso dopo Picasso o Mirò». Rifiuta la sua appartenenza a un qualsivoglia genere o linea di tendenza, tipo l’ action painting cui non vuole mai essere nemmeno accostato. In un altro passo esclama: «la gente mi chiede se sono un buddista zen. No. Non lo sono. Non sono interessato a nessuna civiltà ad eccezione della nostra».
Il suo punto fisso di riferimento è la storia (nel Libro della Genesi) di Abramo e del Sacrificio di Isacco come affrontato da Kierkegaard con lo pseudonimo, forse determinante per Rothko, di Johannes de Silentio, dove il maestro danese intende dare un senso superiore e dirimente all’impossibilità, per l’ essere umano, di risolvere il pur ineliminabile e anzi sempre incombente contrasto tra Etica ( per cui Abramo è un assassino) e Fede (per cui Abramo sopravanza Dio stesso). L’estetica, dice Kierkegaard, con una formula impenetrabile ma mirabilmente coinvolgente, viene prima.
Rothko aveva cominciato insegnando ai bambini che non sanno la storia dell’arte ma sanno l’ arte quando vi hanno naturale disposizione e lo aiutano a capire come la pittura, se rettamente intesa, possa collocarsi pressochè tangente con una possibile idea di assoluto. Le masse cromatiche fluttuanti, vibranti ai limiti dell’ impercettibile sono direttamente la formulazione visiva dei palpiti del cuore, proprio di quella dimensione, così imbarazzante, ovvia e incomprensibile, che chiamiamo il sentimento, tra i due poli della pulsione e della struttura, come ben spiega Venturi. Rothko avvertì, nel punto culminante della sua parabola tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il rischio che i suoi quadri venissero scambiati per decorazione. Per questo voleva che fossero grandi così da coprire totalmente le pareti, cancellandole e assumendo la funzione della antica pittura murale. Nel libro si legge una commovente testimonianza: quando andò a Pompei e Paestum qualcuno notò come le sue masse cromatiche, perennemente oscillanti tra vibrazione e fissità, sembrassero modellate sulla percezione delle colonne del Tempio greco classico e lui osservava come in verità avesse sempre dipinto i Templi greci senza essersene mai accorto. L’ eterna metafora del mito.