Robinson, 15 gennaio 2022
Casa Kapuscinski
Aveva voluto fargli una sorpresa. Lui era partito, ancora una volta, per mesi. Le comunicazioni non erano mai state facili. Alicja era abituata. A volte, quando Ryszard faceva il corrispondente dall’Africa per la Pap, l’agenzia di stampa polacca, andava nella sede centrale per capire almeno dove fosse dai dispacci che inviava. «Comprammo quest’appartamento trent’anni fa, con una soffitta piuttosto rudimentale: pavimento di cemento, finestre piccole, locali piccoli, niente di particolare», racconta Alicja Kapuccinska, nel soggiorno della casa a due piani di Via Prokuratorska, in una vecchia zona residenziale di Varsavia. Le sue assistenti portano qualche dolce e un po’ d’acqua, sistemano il mazzo di rose che ho portato, ancora bagnato dalla pioggia.
«Trovai una ditta per farla ristrutturare. Quando Ryszard tornò, gli dissi: vieni in soffitta. In soffitta? mi rispose. Quando entrammo, disse: Non l’avrei mai immaginato! Da quel momento, e fino all’ultimo giorno, fu felice di avere un posto così bello e grande». Divenne «il suo tempio». Amava starci, isolarsi, nel silenzio. Alicja filtrava le telefonate. «Lavorava moltissimo, non doveva essere disturbato. Sapevo che era necessario, il lavoro era la cosa più importante».
Per Kapuscinski la scrittura era un processo complesso, un campo di battaglia alla ricerca di forma, ritmo, senso. Nella sua mansarda- biblioteca aveva a disposizione un universo di libri, documenti, ritagli. Per scrivere un libro bisogna leggerne cento, diceva. A volte si sdraiava sul pavimento, per chiarirsi le idee, concentrarsi, trovare l’ispirazione. Lo studio è rimasto come lo ha lasciato, forse un po’ più in ordine, l’archivio avanzato, la polvere levata via regolarmente. Un ambiente unico, con un divanetto in un angolo, pareti di libri, foglietti con citazioni sparse su scale e travi del soffitto, file di scaffali e schedari, souvenir di viaggio, pietre e statuette, orologi, quadri, ritratti, edizioni estere dei suoi libri. «Ci sono talmente tante memorie che ha lasciato qui, tante fotografie, che quando entro vedo che lui è ancora qui», continua Alicja, compagna di vita per oltre cinquant’anni. «Sono felice di ogni ricordo e li guardo con gioia».
La macchina da scrivere portatile tedesca Erika campeggia al centro della scrivania ( non usava il computer, batteva tutto a macchina), con accanto cartelle di note, un libro di Seneca, decine di penne multicolori. Era appassionato di semplici biro, non le buttava nemmeno quando finiva l’inchiostro, le collezionava.
In segno di omaggio, le penne continuano a lasciarle sulla sua tomba. Nel cimitero Pow?zki, tra i viali che ospitano le sepolture di compositori, attori, registi, scienziati, politici, sportivi, quella in pietra scura di Ryszard Kapuscinski ha un globo stilizzato, con qualche parallelo e meridiano, e una tazza per le penne. Lascio anche la mia. Francesco M. Cataluccio, scrittore e saggista specialista di cultura polacca, ricorda che Ryszard gli confidò che gli sarebbe piaciuto che sulla sua tomba venisse scritto “poeta”. Aveva coltivato fin da ragazzo la poesia. Jarek Mikolajewski (poeta, giornalista, italianista, suo grande amico) aveva curato una raccolta delle sue liriche, pubblicate per la prima volta in Italia. Racconta che Kapuscinski credeva nella «poesia come esercizio linguistico», «che la lingua si fossilizzasse con l’uso: se qualcuno fa solo reportage e non rinfresca la lingua rischia di entrare nella poetica dello stereotipo».
Di Mikolajewski è uscita a novembre, in Polonia, la traduzione della Divina Commedia, iniziata più di trent’anni fa, di cui Kapuscinski aveva apprezzato alcuni passi. «Quando ho mandato i primi tre canti a Kapuscinski, nel 2006, mi ha chiamato la mattina della vigilia di Natale e mi ha chiesto di andare subito perché aveva qualcosa da dirmi. Stava male, ma non voleva parlarmene. Vedendomi entrare nella sua camera, sdraiato sul divano, esclamò: Jarek, ma la Commedia è un reportage dell’Inferno! Morì un mese dopo». Mikolajewski sta scrivendo ora un breve libro su Dante reporter: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, cos’è se non il punto di partenza di un viaggio che sotto la penna del viaggiatore diventa subito reportage?».
Ai piedi della tomba di Kapuscinski c’è scritto, invece, Trzeba byc dobrym dla ludzi ( «bisogna esser buoni con la gente»). «Mio padre era un reporter, parlava della vita delle persone che sono in fondo alla scala sociale, povere, oppresse, private della loro voce, della loro libertà di espressione, persone che non vengono mai ascoltate», racconta Rene Maisner, l’unica figlia di Ryszard e Alicja, che vive a Victoria, sulle rive del Pacifico, in Canada, occupandosi d’arte e fotografia. Ha cambiato nome ( in Polonia era Zojka) e continente. Da tempo sta approfondendo la conoscenza del padre, attraverso i suoi scritti, riappropriandosi della sua figura, rimasta spesso a distanza. Ne parla oggi con ammirazione, per la qualità della scrittura, il rigore, l’impegno, una compassione per la condizione umana che veniva dalla sua storia.
Narra Kapuscinski in apertura di Autoritratto di un reporter (pubblicato in Italia come tanti altri titoli da Feltrinelli): «Nato in Polessia, sono sostanzialmente uno sradicato. Partito bambino da Pinsk, mia città natale, per tutta la guerra sono stato sballottato di qua e di là. Non facevamo che scappare: prima da Pinsk in direzione dei tedeschi, poi nella direzione contraria. Ho cominciato a vagabondare a sette anni, e ancora non ho smesso». A nord-ovest di Varsavia, nel distretto di Izabelin, vi sono ancora due case dove la famiglia Kapuscinski abitò per qualche anno durante la Seconda guerra mondiale. «Io ero troppo piccolo per ricordare che cosa fosse la pace: quando finì la guerra, conoscevo solo l’inferno», scrive Kapuscinski in Giungla polacca, il suo primo libro, composto alla fine degli anni Cinquanta e pubblicato nel 1962.
Poi venne l’approdo a Varsavia, il tempo degli studi, dell’università, dell’impegno politico, dei primi reportage, dei primi dissensi. Racconta Miroslaw Ikonowicz, amico intimo e collega all’agenzia Pap, seduto al tavolo del ristorante della figlia chef e star televisiva: «Ci siamo conosciuti all’università di Varsavia, alla facoltà di storia. Tutti e due provenivamo dall’allora Polonia dell’est, io da Vilnius, Ryszard da Pinsk. Avevamo ideali e radici culturali comuni e qualcosa che non si può descrivere, l’amicizia. Eravamo di sinistra, critici, penso che per questo siamo diventati corrispondenti dall’estero».
Dal viaggio “dentro” – la Polonia – al viaggio “fuori”: le prime esperienze in India, poi l’Africa, l’America Latina. Come fa notare Silvano De Fanti, curatore del Meridiano dedicato a Kapuscinski, per lui il reporter «sta sempre tra due realtà, sospeso sopra culture di cui si sforza di essere il traduttore», cosciente che «bisogna essere sul posto». Disilluso per i traumi della guerra e i fallimenti dello stato socialista, Kapuscinski cerca in altri luoghi nuovi sogni, rivoluzioni, emancipazione e giustizia sociale.
Le allegorie sul potere non mancano. Secondo Rene Maisner c’è un doppio livello di messaggio nei suoi scritti. Pagava un prezzo inevitabile alla censura, ma attraverso la rappresentazione di altri poteri si schierava per la dignità e la libertà di espressione. Era un modo per indirizzare i lettori polacchi verso un’esperienza mentale di apertura, un messaggio ai giovani di fare attenzione alla Storia per far sì che non si ripeta.
Qualche anno fa una controversa biografia di Artur Domoslawski ( La vera vita di Kapuscinski) ha posto di nuovo la questione inesauribile della linea di confine tra giornalismo e letteratura, fatti e fiction, oltre a ipotizzare collaborazioni con la polizia segreta. Cataluccio pensa che il libro sia «una sorta di uccisione del padre da parte dell’autore che era un suo allievo. La polemica sul fatto che possa aver stravolto alcune vicende è sterile; Kapuscinski era uno scrittore, molto letterario. Dei documenti sapeva; prima di morire mi disse che stavano uscendo e che qualcuno li avrebbe utilizzati. Mi raccontò che, quando nel ’ 59 uscì per la prima volta dalla Polonia per andare a fare il corrispondente della Pap in Africa, dovette firmare diverse carte, senza le quali non gli avrebbero dato il permesso di andar via. C’era pure il fatto che una volta al mese doveva fare rapporto a un signore della polizia polacca o russa su cosa facevano i giornalisti occidentali, soprattutto americani. Pensavano che stesse negli alberghi la sera a bere whisky con le puttane insieme a loro e invece lui non aveva soldi, ogni tanto lo invitavano per un whisky ma nel rapporto inventava cose, non ha mai denunciato nessuno». Per Ikonowicz, «Ryszard non trasfigurava la realtà, la approfondiva. Per lui il giornalismo e la letteratura sono le due rive dello stesso fiume, l’importante è il flusso».
La linea di separazione è sottile. Nel caffè- libreria della Fondazione Istituto di Reportage, che dirige, incontro lo scrittore Mariusz Szczygiel. Sostiene che bisogna «essere fedeli ai propri sensi. Ai nostri studenti dico: i miei occhi, le mie orecchie, la mia testa, il mio cuore». Per Katarzyna Surmyak- Domanska, presidente del Premio Kapuscinski per il reportage letterario sostenuto dalla città di Varsavia, «il reportage dovrebbe essere come un’enciclopedia, verità già controllata e verificata». Per Filip Springer, insignito lo scorso settembre a Roma del Premio Kapuscinski ( creato nell’ambito del Festival della Letteratura di Viaggio in collaborazione con la famiglia Kapuscinski e l’Istituto di cultura polacco), «il reportage a volte non è sufficiente, il mondo è cambiato e ci si deve chiedere se gli strumenti che si utilizzano siano adatti a raccontarlo».
La fama di quello che è considerato il più importante reporter del Novecento resiste. Sulla facciata dell’agenzia Pap, dove Kapuscinski lavorò tra il 1958 e il 1972, c’è un bassorilievo con il suo volto e una sua frase: «Il lavoro di un giornalista d’agenzia è pura schiavitù. Nessun altro giornalista della stampa o della tv sa che fatica sia scrivere per un’agenzia». La leggenda vuole che avesse due taccuini: uno per scrivere gli appunti delle notizie per la Pap, uno per i suoi appunti più personali.
Il 23 gennaio, ricorda Rene Maisner, «saranno quindici anni della scomparsa di mio padre. In questo giorno mia madre Alicja invitava la gente a unirsi a noi per commemorarlo e rendergli omaggio. In quella data, da dieci anni, la Fondazione Erodoto Ryszard Kapuscinski creata da mia madre assegna borse di studio di scrittura per giovani reporter in una cerimonia che si svolge al Dipartimento di Storia dell’Università di Varsavia, dove mio padre si laureò nel 1955. Un paio d’anni dopo la laurea, iniziò i suoi viaggi come corrispondente. Il primo paese in cui approdò fu l’Italia. E credo che l’Italia sia stato anche l’ultimo paese in cui ha viaggiato. Durante la sua vita, tornò in Italia molte volte, perché era uno dei suoi posti preferiti. Aveva molti amici, grandi traduttori e molti lettori entusiasti di tutte le età».
Nel parco Pole Mokotowskie, non lontano dall’ultima casa di Kapuscinski, esiste ancora la casetta di legno finlandese in cui Ryszard Kapuscinski abitò, con i genitori e la sorella Barbara, dal 1946 al 1955. Faceva parte di 160 piccole case unifamiliari che l’Urss donò a Varsavia devastata dal nazismo, frutto delle riparazioni di guerra pagate dalla Finlandia. Oggi ne sono rimaste in piedi solo due, iscritte nel registro comunale dei monumenti. In accordo con la famiglia dello scrittore, il governo municipale della capitale sta per restaurarla e trasformarla in un Centro per il reportage a lui intitolato. Dal 2010, attraversa il parco il “Sentiero Kapuscinski”: quattordici tappe, pannelli verticali (con immagini e mappe) e strisce di cemento orizzontali (con citazioni da sue opere), che seguono il percorso descritto nel testo Passeggiata mattutina, uscito due giorni dopo la sua morte, in cui descriveva il tragitto da casa sua verso alcuni luoghi della giovinezza. Un viaggio in sua compagnia, con le sue frasi sparse nei prati e le sue foto in bianco e nero tra gli alberi; «la fotografia», scriveva, «è la memoria visiva del mondo».