Specchio, 16 gennaio 2022
Arianna Fontana si racconta
L’ultima portabandiera dei Giochi invernali si è spinta lontano dall’Italia per tornare a vestire l’azzurro. Arianna Fontana, otto medaglie ai Giochi nello short track, un record, una garanzia e a quanto pare un peso, almeno per quasi tutte le gestioni del pattinaggio italiano passate dal 2006, primo bronzo in staffetta a Torino, al 2018, memorabile edizione di PyeongChang che ha portato pure l’oro. Nulla sembra bastare per trovare l’intesa. E nulla placa la voglia di vincere di Arianna. Così ci riprova: a 31 anni chiude in un armadio tutti i conti in sospeso per partire leggera. E determinata come sempre. Come è indispensabile essere per girare a razzo in equilibrio sulle lame.
Dove si è allenata in questi ultimi due anni?
«Per lo più a Budapest, in Italia non è stato possibile purtroppo. Vedevano mio marito Anthony come una minaccia. Succede da un po’, ma io ho raggiunto un equilibrio con lui e ritengo il suo lavoro come tecnico fondamentale. Non significa non dare retta ad altri, si tratta solo di non escluderlo dai miei allenamenti, di considerare quello che mi serve per restare al top. In Ungheria ci hanno accolti, come ovunque ci sono stati problemi nelle fasi acute di contagio, però abbiamo trovato tutto quello che serviva e ci siamo preparati bene».
Da esuli. Ora però è stata in raduno a Bormio con la nazionale. Problemi risolti?
«Tregua. A cui spero seguiranno chiarimenti e soluzioni condivise. Ci sono state molte fasi differenti, durante la breve gestione di Frédéric Blackburn, negli ultimi mesi, si era trovata una vera quadra ma non mi sorprende che si sia dimesso dall’incarico di responsabile della squadra italiana perché evidentemente non c’è un clima di fiducia. Ormai mancavano due mesi alla partenza per la Cina e speravo reggesse, anche se non posso dire di essere sorpresa. Pazienza, non c’è il tempo di essere arrabbiata stavolta. Come ho detto: tregua. Siamo tutti concentrati sui Giochi».
Scusi, è difficile capire come l’atleta più vincente di uno sport fatichi a trovare le condizioni che chiede. È lei che vuole imporsi troppo o è la federazione a essere poco elastica?
«Io mi sto zitta perché ci tengo alle Olimpiadi e se parlo rischio di non andarci. Sono successe tante cose, troppe per fare solo finta di nulla, eppure credo sinceramente che ora l’obiettivo comune sia evidente quindi i problemi saranno affrontati al ritorno da Pechino».
Restiamo a quello che è noto. Nel giugno del 2021 lei pubblica sui social un duro sfogo in cui dice di sentirsi tradita. Poi?
«Quello è stato un mesetto complicato. Tornavo da un infortunio, volevo calibrare il rientro e andare per gradi, avrei saltato delle staffette e volevo essere io a spiegare la situazione alle ragazze, invece me le sono ritrovate praticamente contro per colpa di informazioni sbagliate. E mi hanno detto che potevo anche tornarmene indietro. Non ero desiderata: hanno messo in discussione la mia carriera, il punto più basso».
Oggi alla guida della nazionale è tornato Kenan Gouadec, canadese come il suo predecessore, e lui era ct anche nel 2018. Meglio?
«Abbiamo messo in chiaro un po’ di cose. Per me conta che sia definito il ruolo di Anthony come mio allenatore personale. Me ne sono successe così tante che non so più che cosa pensare, mi fanno passare per una che ha pretese... io non chiedo nulla di particolare, solo quello che serve per pattinare al meglio. In Italia spesso chi deve supportare gli atleti semina zizzania, non succede solo nello short track».
Perché?
«Nel sistema Italia l’atleta non è ancora al centro. Tante persone qualificate sono lì a sostenere chi pratica, altre seguono interessi propri. Ritorni, visibilità, gestione del potere, piccoli feudi. Senza chi fa sport, senza noi atleti, le federazioni non esisterebbero. Certo, ci sono situazioni dove siamo migliorati, ma qui si tratta di rimordenizzare meccanismi sedimentati da decenni».
Sta parlando da futura dirigente sportiva o come una che non vuole smettere?
«Eh, Cortina-Milano, nel 2026, è una tentazione bella grande. Iniziare e chiudere con i Giochi in casa, sembra studiata apposta, una sceneggiatura. Però ci sono tante, probabilmente troppe, cose che devono cambiare. Quindi vedremo».
Il presidente del Coni Malagò che cosa ne pensa?
«Mi è stato di grande sostegno in questo periodo e sul futuro e diviso persino lui: mi vorrebbe ancora in pista tra quattro anni e nello stesso tempo mi immagina in altri ruoli».
L’Italia ha imparato a vincere. Voi degli sport invernali sentite il peso dell’eredità?
«Quando i ragazzi alle Olimpiadi estive facevano meraviglie noi eravamo nella fase di massimo carico ed è stato uno stimolo pazzesco. Nel 2020, causa pandemia, abbiamo avuto poche gare a disposizione, tifare ci ha aiutato a superare l’ansia di non essere pronti e ci ha fatto scalpitare. Non vediamo l’ora che tocchi a noi».
Che cos’è scattato negli italiani? Prima eravamo convinti di avere dei limiti in molti sport ora chiunque ci prova.
«Forse ci serviva il Covid per tirare fuori il meglio di noi. È chiaro che avremmo fatto tutti a meno di questa tragedia, eppure sono convinta che quando ci siamo ritrovati senza gioia, lo sport è diventato il canale per riprendercela».
Lo short track azzurro a che cosa punta?
«Abbiamo un bel gruppo, gli uomini sono molto migliorati, le staffette sono tutte competitive, il lavoro di Fred, pure se interrotto, si vede. Non possiamo distrarci, il livello generale si è alzato. Una nazione come l’Olanda, che prima guardavamo con superiorità, ora ci sfida alla pari».
La Cina è stata travolta da proteste e boicottaggi diplomatici. Da atleta come vive la trasferta?
«Dentro i Giochi non dovrebbero entrare i problemi del mondo perché quelli ci sono in ogni Paese».
Sì, ma gli sportivi diventano sempre più attivisti.
«Vero. Se ti senti promotore di una causa e puoi portare avanti l’agonismo e il manifesto in contemporanea, è giusto esprimersi, ma non è corretto spingere tutti a comportarsi allo stesso modo. Io so che le Olimpiadi sono un’occasione per farsi ascoltare, un palcoscenico unico, so anche che sono quell’opportunità che si presenta ogni quattro anni e vale tutte le fatiche di una carriera. Essere spronati dalle proprie convinzioni va bene, non lo è rispondere alla sollecitazione di quelle altrui».
Che idea si è fatta sulla tennista Peng Shuai?
«Dopo tutta questa confusione avere un pensiero lucido è difficile. Temo che non sapremo mai la verità, si può solo sperare che lei stia bene, continuare a chiedere prove della sua libertà e della sua salute. Anche mentale, ma sapere come è andata veramente? Ne dubito».
Saranno Giochi nella bolla ermetica, persino più di quelli già controllati a Tokyo.
«Per la prima volta i miei genitori non saranno lì. Strano, non li ho mai frequentati durante le Olimpiadi e comunque sapere della loro presenza è sempre stato un grande valore. Mi auguro che i protocolli siano un po’ meno rigidi di quelli visti in Coppa del Mondo. Non parlo di organizzazione globale, ma di dettagli».
In questi giorni hanno ulteriormente inasprito le regole.
«In ottobre non siamo mai riusciti a prendere dell’aria. Mai. Neanche sulla porta del palazzetto. Chiedo un minimo di flessibilità, per respirare. In ogni caso, faremo come ci diranno».
Lei è salita sul podio per la prima volta a 15 anni, ora ne ha più di 30. Quanto è cambiato lo short track nel frattempo?
«È un altro sport. Le tecniche di sorpasso attuali non esistevano allora. Io sono stata brava e fortunata, sono riuscita ad adattarmi, ad anticipare persino certe tendenze. E da questo punto di vista devo molto a mio marito Anthony».
In che cosa lui ha fatto la differenza?
«Mi ha fatto diventare un’atleta diversa, mi ha dato responsabilità. Degli incarichi. Come curare questo o quel dettaglio. E poi ha costruito un percorso: dalle vitamine da prendere, al cibo da scegliere, al riposo. Prima sapevo, in teoria, tutto, ma facevo una cosa su cinque. Se a 31 anni sono a qui a pensare che cosa farò tra altri quattro lo devo a lui e per questo non esiste allenarsi senza di lui».