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 2022  gennaio 16 Domenica calendario

Intervista all’artista Anselm Kiefer

Nato a Donaueschingen, in Germania, l’artista Anselm Kiefer vive dal 1992 in Francia, a Parigi e Barjac, vicino ad Avignone, dove ha creato una fondazione che porta il suo nome. Lavora a Croissy, alle porte di Parigi, e al Grand Palais Éphémère della capitale francese si è appena conclusa la sua mostra Anselm Kiefer - Pour Paul Celan. Alla Galerie Thaddaeus Ropac di Pantin dal 9 gennaio è invece in corso la mostra Hommage à un poète.
Ha bisogno di spazi grandi per lavorare?
«Sì, i miei dipinti non sono mai finiti, restano sempre con me e ho bisogno di spazio per tutti i quadri in attesa».
Perché ha dedicato una mostra a Paul Celan?
«Perché ci ho pensato per 60 anni. Ho scoperto Celan al liceo, ho cercato di esprimere i pensieri che mi suscitano le sue poesie».
Era un ebreo romeno di Czernowitz che ha vissuto la guerra tra mille difficoltà. Cosa ha di speciale?
«La sua abilità linguistica. Conosceva tante lingue, russo, romeno, yiddish, ebraico, tedesco, francese, italiano. Traduceva addirittura dall’inglese al tedesco. E Czernowitz aveva vissuto cambiamenti drammatici: prima gli Asburgo, poi Hitler, infine Stalin».
Lei è nato a Donaueschingen?
«Sì, nel marzo 1945, alla fine della guerra. Le bombe cadevano sullo svincolo ferroviario vicino alla nostra casa, sono nato nell’interrato dell’ospedale».
È cresciuto in una Germania distrutta. Si provava un senso di colpa?
«All’inizio per niente. Non ne avevo mai sentito parlare».
Nemmeno dai suoi genitori o amici?
«No. C’era un clima molto autoritario, molto negativo, ma nessuno parlava di questo trauma, non toccavano l’argomento. Mio padre era stato un uffiiale, un capitano, e la Wehrmacht per lui era sacrosanta. So che non era coinvolto negli eccidi, come la maggioranza dei soldati, anche se non tutti. Non sapevo nulla, non avevo informazioni: a scuola avevamo studiato il nazismo per due settimane, mentre ad Alessandro Magno ne erano state dedicate tre».
Voleva diventare un artista fin da piccolo?
«Da bambino volevo fare il Papa. All’epoca soltanto gli italiani potevano diventarlo».
I libri e la letteratura sono una parte importante del suo lavoro. Ha mai pensato di diventare uno scrittore?
«Sì, a un certo punto della mia giovinezza ero indeciso se volevo fare lo scrittore o il pittore. A 17 anni avevo vinto il primo premio di un giornale per il quale avevo scritto, e avevo potuto viaggiare per sette settimane nei Paesi Passi, nel Belgio e in Francia».
Come lavora?
«A volte lavoro di notte, a volte di giorno. Dipende anche dalle dimensioni dell’opera. Faccio anche lavori più piccoli, inclusi libri e acquarelli».
Però poi fa dipinti molto grandi?
«A lei sembreranno anche grandi, ma vada al Palazzo Ducale di Venezia e guardi il Tintoretto, è largo 20 metri».
L’anno prossimo lei esporrà al Palazzo Ducale?
«Sì, farò una mostra».
Si sente particolarmente attratto da Venezia?
«Sono attratto da Tintoretto».
Quanti dipinti esporrà?
«Abbastanza da riempire la sala».
E’ vero che a volte le ci vogliono anni per finire un quadro?
«Ho dipinti iniziati negli anni 70 su cui sto ancora lavorando».
Quando considera finito un dipinto?
«Io non penso che siano mai finiti. Sono in flusso, in movimento. So che Paul Celan cambiava spesso le sue poesie, a volte anche durante una lettura».
Come concepisce i suoi lavori?
«Dipende. Di solito devo avere uno choc: da un paesaggio, una poesia, una musica. Mi rende inquieto. Mi mette all’opera».
Che genere di musica le provoca choc?
«A 14 o 15 anni sono rimasto sotto choc per Wagner. Ho ascoltato il Lohengrin alla radio, insieme a mia madre».
Come riesce a trasformare qualcosa di immateriale come la musica in qualcosa di materiale e visuale?
«Non lo so. Quando ascolto la musica e lavoro qualcosa accade, ma è impossibile analizzare cosa. Lo sento come una transizione, un flusso permanente che crea qualcosa dentro di me».
Definirebbe la sua opera un chiaro messaggio di denuncia a quello che è successo nel suo Paese?
«Prima voglio capire chi sono, e cosa avrei fatto in quella situazione».
Si interroga sulla generazione dei suoi genitori?
«No, mi interrogo su me stesso. Non ho mai discusso il passato con mio padre».
Cosa significano le sue torri al Pirelli HangarBicocca a Milano?
«Ho fatto sette torri in riferimento al misticismo ebraico, a Merkabah. È la storia di chi attraversa sette palazzi: prima bruciano i piedi, poi le mani, fino a che non sopravvive soltanto lo spirito».
Perché dipinge spesso paesaggi di distruzione?
«Non riesco a vedere un paesaggio senza la guerra, per me è segnato da tracce di guerre e battaglie».
Eppure lei appartiene a una generazione del dopoguerra?
«Ma la guerra era ovunque. Negli anni 90 ha dilaniato la Jugoslavia, prima c’era stata la Corea. Ero bambino all’epoca, e ricordo mia madre che comprava grandi sacchi di zucchero e farina perché pensava che la guerra sarebbe ricominciata».
La sua è un’opera di denuncia?
«Credo che nella costruzione degli umani ci sia qualcosa di sbagliato, perché i nostri conflitti non finiscono mai».
Le succede di buttare dipinti che non le piacciono?
«So cosa significa la delusione. Non distruggo nulla, ma rielaboro molti quadri».
Iniziare è difficile?
«No, è sempre bello perché tutte le possibilità sono ancora aperte».
Ci sono dipinti che non vorrebbe vendere?
«Sì, le opere e le installazioni nella mia fondazione di Barjac non possono essere vendute».