il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2022
Biografia di Stefano Fresi raccontata da lui stesso
L’approccio vale uno stile di vita. Stefano Fresi è l’evoluzione dell’antica narrazione che inquadra l’uomo con qualche chilo in più come bonario, simpatico, pronto a sdrammatizzare. Lo è realmente e oltre. La sua non è una via di fuga, piuttosto è sostanza di chi sta bene con la propria storia, con il proprio io, si reputa fortunato e sa ridere pure dei fraintendimenti casuali (“A volte firmo gli autografi al posto di Battiston”); degli incidenti professionali (“Su un set sono stato inseguito da un toro di 600 chili”) o della sua carriera da compositore di jingle per la Rai (“Quando ne sento uno penso: chissà quanto ho rotto le palle alle persone”).
Ora su Sky è tra i protagonisti dell’ultimo film di Edoardo Leo, Lasciarsi un giorno a Roma e delle nuove puntate della serie I delitti del Bar Lume.
Tre anni fa al Fatto ha raccontato: “Sul set del Bar Lume mi sento in vacanza…”.
Giriamo in un luogo ameno, turistico ma non troppo, piazzato sul mare; finiamo le riprese alle cinque del pomeriggio e poi via in costume; mangiamo bene, gli abitanti del luogo sono affettuosissimi con noi…
Sembra la pubblicità del “Turista per sempre”…
È una condizione in cui uno dovrebbe pagare, mentre abbiamo uno stipendio; il regista è un catalizzatore di energia positiva, di gioia, di grande mestiere.
Poi c’è Benvenuti…
Con Alessandro c’è un rapporto gigantesco di amore.
Spesso appare come un tipo burbero.
No, è solo uno in grado di esprimere ciò che pensa in un clima di buonismo diffuso, in cui tutti temono sempre di turbare l’ordine pubblico.
Nella serie duetta con Guzzanti…
Da anni stiamo insieme sul set, ma ancora non ho imparato a non ridere delle sue uscite estemporanee. (Pausa) Ogni tanto, non solo io, ma tutta la compagnia, regista compreso, ci fermiamo, giriamo la testa, sfoghiamo la ridarella e ricominciano a girare; Guzzanti è un genio.
È uno dei più grandi?
Ho avuto il piacere e la fortuna di lavorare con molti attori bravi, ma lui è di un altro livello.
Anni fa ha dichiarato: “All’inizio mi sentivo inadeguato”.
Ma capita ancora adesso perché è un mestiere profondo, incredibile, in cui è possibile incontrare veri maestri (sorride). Se non resti umile sei uno stronzo.
Ora è considerato uno dei più bravi.
Appunto, “uno dei”, non “il più”: quindi ci sono margini.
Rispetto agli inizi.
Rifarei tutto, al massimo le esperienze brutte si tramutano in storie per gli amici.
Il suo cavallo di battaglia.
Ero sul set di Solo per il weekend: in una scena io e Francesca Inaudi dovevamo scappare su un sidecar; il problema era che nessuno aveva precedentemente mostrato a Francesca come si guidasse. Non solo: era realmente un mezzo degli anni Trenta, non semplicissimo.
Dolore…
Manifesto qualche dubbio, ma rispondono: “Non c’è tempo, tanto deve solo andare dritta”. Insomma, ci siamo sfracellati su una macchina parcheggiata, sidecar distrutto e noi super ammaccati. (Ride) Non solo, successivamente hanno scontornato la scena e ricostruitala al computer.
Il cinema va avanti a prescindere.
Non si ferma davanti a niente. Non conosce ostacoli. Li abbatte tutti.
È uno dei talenti usciti da Un medico in famiglia.
È una delle esperienze in comune con Edoardo Leo, senza saperlo: ce lo siamo rivelati anni dopo; poi sul set ho conosciuto Pietro Sermonti ed Elio Germano. Con Pietro siamo diventati amici: lui potrebbe promuovere qualunque film, anche quelli in cui non è coinvolto.
Cioè?
È preparatissimo, alle pellicole trova dei significati che neanche il regista aveva valutato, ed è talmente credibile da convincere il regista stesso.
Il Medico è stato uno dei suoi primi set.
Ero proprio l’ultimo arrivato e lì ho trovato un mito come Banfi che anni prima mi veniva a vedere a teatro, quando suonavo con un trio; (ci pensa) Lino lo ringrazio, con me è stato accogliente e generoso; sembra burbero, ma è uno di quegli attori che se capisce che la battuta sta meglio in bocca ad altri la molla senza problemi.
Lei è pure nella saga di Smetto quando voglio…
Uno degli aspetti che mi impressionano di più è quando il pubblico mi ferma e recita a memoria le frasi del film; e pensare che alcune di quelle battute sono nostre, non stavano nella sceneggiatura.
Sermonti la definisce un attore uscito dalla Scuola russa. Perché sa fare tutto, pure ballare…
Ho lavorato quattro anni con Don Lurio; (pausa) c’è un aspetto di questo lavoro che mi fa impazzire…
Lo sveli.
La mia stazza è chiara, ma quando qualcuno mi prende in giro gli rispondo: ho giocato a pallone all’Olimpico, a tennis allo stadio Pietrangeli e ho ballato con Bolle. Che famo? Ecco, è incredibile quello che ti può regalare questa professione.
Torniamo a Don Lurio.
Uomo straordinario, da quarant’anni in Italia e ancora non aveva imparato la nostra lingua (lo imita benissimo): era un incrocio tra Dan Peterson e Heather Parisi, ma con un gran gusto per lo spettacolo.
Severo?
Pretendeva la precisione.
Usciva stremato.
Avevo vent’anni, reggevo. Oggi sarebbe impossibile.
Era più magro.
Un po’ sì; comunque negli ultimi tempi ho perso 30 chili e ne voglio buttare giù altrettanti.
Da ragazzo com’era?
Magro fino ai 17 anni: ho iniziato a mangiare con il teatro e con le cene post spettacolo; (cambia tono) il mio peso ha partecipato alla simpatia del personaggio: ora sono più grandicello e devo pensare alla salute, poi sono conclamato e posso permettermi di dimagrire.
È politicamente corretto.
Sono per l’incontro, per la sintesi di entrambe le parti. Per questo mi stanno sui coglioni gli hater.
Veltroniano.
L’ho pure votato, è una persona che stimo.
Ha girato un film con lui…
È un gran narratore di storie, ama questo lavoro e sa dirigere gli attori. È bravo.
L’ha stupita?
Sì, piacevolmente. Con quel film ho pure vinto il Nastro d’Argento.
Verità o leggenda: è stato inseguito da un toro di 600 chili…
Verissimo, sul set di Ma che ci dice il cervello?; lì è accaduto di peggio: giravamo su una Citroën vecchissima con problemi seri al gas di scarico: con la Cortellesi è un miracolo se non siamo morti per intossicazione.
Scrive sempre jingle per la tv?
Non ho più tempo e neanche mi chiamano: ormai mi percepiscono come attore; compongo giusto qualcosa per il teatro o studio pianoforte per me.
Cosa sognava da ragazzo?
Fino ai dodici anni di diventare come Maurizio Pollini, poi ho iniziato a cantare e a girare i locali come pianista…
Rimorchiava?
Porca miseria.
Molto?
Ero bello, magro, biondo con gli occhi celesti. Inoltre suonavo e cantavo bene.
Altro che Jerry Calà.
Eh, cose belle.
Si è divertito.
Ho suonato dai locali della Costa Smeralda fino a un albergo a Santa Severa: in questo albergo passavano gli universitari di tutta Europa… (il tono qui ha un che di furbetto).
Poi il teatro.
Fino a quando Augusto Fornari mi ha chiesto di comporre le musiche per uno spettacolo. Alle prove sono rimasto folgorato dal palco e dopo poco ho incontrato Gigi Proietti. Il massimo.
Ha partecipato alle sue cene…
In cui raccontava le barzellette più belle del mondo e faceva ridere come nessuno? Eccome…
Che consigli le ha dato?
Era un maestro inconsapevole, bastava guardarlo muoversi per capire; (pausa) con lui ho due immagini nitide: stava per entrare in scena al Teatro Olimpico; subito prima del palco si è girato verso di noi e con il volto terrorizzato ha manifestato qualche timore: “Mamma mia che strizza, farò ride’ ‘sta sera?”. Ci siamo guardati come a dirgli: “Sei Gigi Proietti: ora vai e te li magni”. Aveva paura, per amore e rispetto per questo lavoro.
La seconda…
Era ospite dell’Oscar della radio e portò con sé tutti i ragazzi del suo laboratorio. Io tra questi. Così mi sono trovato in televisione insieme a lui per una trasmissione registrata. Lo studio era vuoto; alla fine dell’esibizione Gigi ha iniziato a ringraziare, e non si fermava più, con frasi tipo “oh, esagerati… ma che è… non dovete”. Insomma, stava simulando una standing ovation per costringere gli autori a montarci sopra degli applausi adeguati. Lì ho pensato: che paraculo.
Nel 2015 Francesca Neri ha dichiarato: “Pare che non si riesca a girare un film senza Fresi”.
(Ride) Eh, pare di sì. Finché ce cascano io sono qua.
Battiston: “Firmo gli autografi per Smetto quando voglio”.
Io per Perfetti sconosciuti; con Giuseppe ci siamo incontrati ai David, seduti vicini, abbiamo riso per questa storia che ci confondono e stretto un patto di autografi incrociati.
Come si trova con le scene di sesso?
Per fortuna ne ho girate poche: per chi partecipa è la distruzione di ogni erotismo. Il massimo l’ho raggiunto con Ambra Angiolini: in teoria dovevo starle sopra, in pratica la telecamera era fissa sul mio viso e sotto avevo un cuscino.
E Ambra?
Seduta accanto a me mentre gemeva e recitava delle frasette; (ride) un’altra volta con Giulia Michelini: ci incontriamo, salutiamo, presentiamo e dopo i complimenti reciproci ci piazzano accanto a un muro per simulare qualcosa di molto acceso. Quando mia moglie ha visto la scena non è stata felicissima; al posto suo sarei impazzito.
Il momento di rottura nella sua carriera.
Con Smetto quando voglio: dopo quel film andai dalla mia agente e trovai 14 copioni per me; in tre settimane ero passato dal cercare pose a poter scegliere, è una sensazione che auguro a tutti.
Aveva mai pensato di rinunciare alla carriera?
Nooo! Ho il privilegio di campare della mia passione, ma stavo bene pure prima: avevo giusto la casa più piccola, un’auto meno performante e spendevo meno di mutuo. Per il resto andava benissimo.
È mai andato in terapia?
No, però ho molte persone che mi usano come terapeuta.
Sa ascoltare.
È uno dei pochi pregi che mi riconosco, ed e è fondamentale per il mio lavoro.
Chi è lei?
Un quasi cinquantenne molto risolto.
Risolto da quando?
Da almeno undici anni, da quando è nato mio figlio. E spero di vivere il più a lungo possibile, ma se morissi domani ne è valsa la pena.