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 2022  gennaio 16 Domenica calendario

Il libro di Mark Manso in cima alle classifiche

In testa alla classifica dei libri più venduti di questa settimana non c’è Houellebecq, come a un alieno verrebbe da dedurre se facesse un giro su Twitter. C’è, invece, il libercolo di un comunicatore, bravo su YouTube, bravo per il New York Times, e bravo pure per Fedez, che lo ha consigliato nelle sue Instagram stories, portandolo in classifica a cinque anni dalla sua pubblicazione in Italia (quando Selene Velez, 178mila follower, inserì La Canzone di Achille nella sua lista "#libri che vi faranno piangere", fece del libro di Madeline Miller un best seller internazionale).
Questo libercolo che sorpassa Fabio Volo che a sua volta sorpassa Houellebecq, ha foggia scadente, copertina cheap e titolo fricchettone: La sottile arte di fare quello che c***o ti pare (Newton Compton). Tutto parecchio raffazzonato. L’editore ha badato al contenuto e trascurato la forma? Impreciso. Piuttosto, l’editore ha adattato la forma al contenuto che, in sintesi, è: badate a ciò che conta per voi (o per lui non contano le copertine, o ama fuori misura i pesci rossi che ci sono raffigurati sopra).
Tutta la nostra vita è determinata da cosa scegliamo di ritenere importante: le nostre società, i giornali, i consumi e, lo abbiamo visto durante i momenti peggiori della pandemia, anche le cure. Ciò che differenzia una cultura da un’altra non è che quello che ciascuna ritiene importante.
L’importanza dell’importanza è, infatti, un tema cruciale della filosofia contemporanea, che lo incardina sull’impianto soggettivo del rapporto con il mondo: il riconoscimento. Stanley Cavell scrisse: «Dato che non possiamo sapere se il mondo esiste, la sua presenza per noi non può essere una funzione di conoscenza: il mondo deve essere accettato, quindi riconosciuto». Questo determina il dinamismo che è alla base del perfezionismo morale, una delle teorie filosofiche che più di altre Cavell tenne a mente e alla cui base c’è l’idea che l’io sia un me che va continuamente «creato e ricreato in permanenza». Quella parte della filosofia contemporanea intuiva e ragionava su come soltanto andando da un me a un altro me ulteriore o più avanzato, e dunque cambiando, trasformando, sia possibile diventare umani ed essere ciò che si è.
È l’anteprima dei discorsi sulla fluidità di genere, sull’identità come transito perenne e sulla possibilità di scegliere chi e cosa essere che portano avanti i movimenti per i diritti civili, e in particolare quello LBGTQ+: proprio ieri, nella sua newsletter, Andrew Sullivan scriveva: «Il movimento trans non ha più a che fare con i diritti. È una rivoluzione culturale». Una rivoluzione culturale non si fa cambiando le cose bensì cambiandone l’ordine, assegnando a esse un peso diverso e, soprattutto, tenendo a mente che al codice nuovo che s’instaura contribuiscono scelte singole, valori singoli. È il movimento alla base di tutte le nuove istanze, dal bodypositive alle grandi dimissioni: do meno valore alla bellezza e non al corpo; do meno valore al capo e non al lavoro, e lo faccio per me, così che ne possa beneficiare anche un altro. Forse.
La riflessione di Mark Manson ruota attorno a questo, anche se il suo libro sembra qualcosa di molto più leggero: ha tutto l’aspetto di un manuale d’autoaiuto che, se pure contesta i manuali d’autoaiuto, ne ha la stessa pasta, le medesime intenzioni. Ma questa è una contraddizione tipica del nostro tempo: non c’è contestazione del capitalismo che non sia stata assorbita o accolta dal capitalismo: gli slogan femministi li leggiamo sulle magliette di Dior; il dito medio di Cattelan sta davanti a Piazza Affari ed è una provocazione che non suggerisce lotta, ma convivenza.
Manson propone una specie di filosofia stoica, anche se non mira, come fa il Manuale di Epitteto, a farti distaccare da tutto, guardandolo dalla prospettiva immutabile dell’impotenza. Epitteto faceva questo esempio: se cade la brocca e si rompe, non prendertela, non puoi farci niente; allo stesso modo, se muore tua moglie, non prendertela, non puoi farci niente. Con la sottile arte dello sbattersene, invece, Manson dice: brocca e moglie hanno due pesi diversi, decidi tu quali e impegnati, eventualmente disperati, per uno dei due. Un paio di quelle che, nel testo, indica come Sottigliezze, chiariscono meglio: «Per sbattersene delle avversità, devi prima dare valore a qualcosa di più importante»; «Sbattersene non significa essere indifferenti; significa essere a proprio agio con la propria diversità». Sì, purtroppo scrive da mental coach, ma il punto è cosa ci dice questo best seller delle soluzioni che cerchiamo, delle cose che ci feriscono, delle malattie psicosociali dalle quali vogliamo guarire. Chi legge questo libro non lo fa perché vuole mollare tutto, così come chi sta lasciando il lavoro in questi mesi non lo fa per rintanarsi in un antro ciclopico per vivere una grande regressione. Invece, cerca un modo per emanciparsi dal dovere di far funzionare sempre tutto, dalla morsa dicotomica di vittoria e fallimento, così da trovare un modo fruttuoso di vivere nel grigio, tornando ad accettare l’insoddisfazione, il disordine, l’inazione. La pandemia ci ha ricordato che il nostro, nel mondo, è un ruolo decentrato: agire di conseguenza non significa perdere interesse, ma capire che in niente va della nostra vita, che non tutto dipende da noi, che dobbiamo adeguarci a rispettare il limite. Vivere è vivere, non una performance. Vivere è rinunciare, sbagliare, starsene a letto, essere improduttivi: vivere è tutto quello che non vediamo su Instagram, che non viene corretto, illuminato, filtrato e manomesso per splendere, incentivare, motivare.
Sono banalità? Sì, lo sono. Tuttavia, la produzione di manuali che ti aiutano a resistere, essere un buon capo, essere felice, essere magra, fregartene di essere magra, lavarti senza fare scortesie all’ambiente, dice che un numero impressionante di persone va in libreria a cercare idee e pratiche per essere felice anche da infelice. La maggior parte di noi desidera avere tutto per dimostrare di essere capace di avere tutto: è un esercizio terrificante di abolizione della scelta. La sottile arte di sbattersene è, invece, nient’altro che la sottile arte dello scegliere.
Noi vogliamo tutto, non ci basta l’Atlantico. Ed è bellissimo, ma è qualcosa che ci ha ammalati, ci ha inquinato le vacanze (li vedete anche voi quelli che fanno jogging quando sono in ferie a Santorini, vero?), ci ha addestrati a temere che scegliere qualcosa significhi perderne un’altra.
In Non vi lascerò orfani (Mondadori), Daria Bignardi scrisse che l’arrosto migliore di sua madre era quello che le faceva all’ultimo momento, male, di corsa, come le tante vie distrattamente: lo chiamava «l’arrosto senza guardare». Così, ogni tanto, dovremmo vivere: senza guardare il risultato, l’obiettivo, la prospettiva. Senza guardare l’arrosto mentre cuciniamo l’arrosto.