La Stampa, 16 gennaio 2022
In Arizona, nella terra di Trump
«Sarà un gran weekend» dice un signore con la felpa extralarge, i jeans scoloriti e un paio di sneakers bianche mentre aggiusta la mercanzia su un banchetto da mercato sotto un tendone blu: ci sono cappellini, gadget, magliette, adesivi con il logo di Donald Trump.
E non si sa se il riferimento è agli affari che conta di fare o all’apparizione – ieri sera alle 7, le 3 della notte italiana – dell’ex presidente a Florence, Arizona, due ore di macchina dal confine con il Messico, che ha scelto l’America profonda per lanciare la corsa dei suoi fedelissimi alle elezioni di metà mandato, antipasto per quello che potrebbe essere il grande ritorno, il duello per la Casa Bianca del 2024.
Donald proseguirà il tour «Save America» il 29 gennaio in Texas, altro Stato sulle barricate anti-Washington.
Ma è l’Arizona il Ground Zero di Trump, il luogo dove ha infranto un record: è stato il primo repubblicano a perdere alle presidenziali da quando Clinton superò Bob Dole nel 1996. Ecco perché la ripartenza non può che avvenire da qui dove il governo federale vuole togliere parte dei finanziamenti a Phoenix se questa non cambierà alcune norme sul Covid in senso più restrittivo nelle scuole e dove venerdì la polizia è intervenuta per sedare un bisticcio alla Dream City Church dove i seguaci del Rewaken America Tour – trumpiani - schernivano alcuni insegnanti che usavano le mascherine.
Trump ha delineato nel Gran Canyon State la sua piattaforma politica: ha parlato di Afghanistan, d’inflazione, di Capitol Hill e di molto altro, secondo le anticipazioni fornite poche ore prima del suo intervento.
Al Canyon Moon Ranch come ad un concerto sono sfilati i gruppi di supporto: deputati, aspiranti tali in corsa nelle primarie delle varie circoscrizioni statali e delle contee. È la legione di Trump, tutti accomunati da un credo: le elezioni del 2020 sono state un furto, la vera rivolta non è stata perpetrata lordando la Rotonda del Campidoglio il 6 gennaio 2021, ma nascondendo, stracciando, ammettendo i voti postali, non contando o contando male le schede il 4 novembre. È una bugia colossale; nella sola contea di Maricopa, per restare in Arizona, su oltre 2 milioni di schede quelle irregolari sono risultate dopo conte, riconteggi e scrutini appena 87. Eppure, non ci si avvicina alla corte del re se non giurando che il voto del 2020 è stato irregolare. Succede in Arizona a Doug Ducey, governatore che ha consentito il sacco di Maricopa, che non era fra gli invitati al comizio del gran ritorno; a Washington invece Lindsey Graham sferza i colleghi affinché si schierino con il condottiero da 75 milioni di elettori e una cassaforte che avrebbe già dentro 1,2 miliardi di dollari per le sfide politiche future.
A queste vorrebbe pensare anche il presidente Joe Biden se non che il suo futuro ha una prospettiva più limitata visti i guai che la sua presidenza, che compie un anno giovedì, sta affrontando. Chissà se il presidente ieri sera dalla sua Wilmington, dove trascorre il fine settimana con un’agenda scarna e dove ha fatto un blitz a un golf club locale, ha avuto modo di ascoltare il discorso di Trump.
Mercoledì terrà una conferenza stampa per riannodare i fili di un anno di governo e le premesse non sono lusinghiere.
Gli ultimi due mesi sono stati brutti, l’ultima settimana terrificante. La macchina dell’Amministrazione è inceppata; da quando in novembre il Congresso ha approvato il piano da mille miliardi di dollari per le infrastrutture sono seguite solo battute di arresto. Notava il sito Axios che Biden ha l’insolito e infelice record di alienare contemporaneamente «i democratici, liberal e moderati, sia i repubblicani». Il Washington Post ha evidenziato «la fragilità e i limiti della sua presidenza». Giudizio che trova gli americani concordi: inflazione mai così alta dal1982 e Covid che non arretra rendono il tasso di approvazione di Biden basso. Gallup lo fissa al 41%, YouGov al 43%, Quinnipiac ha la scioccante cifra di 33% che ha fatto arrabbiare lo staff di Biden che ne ha contestato il metodo. Comunque, a un anno dall’insediamento la popolarità di Joe Biden ha una media su base mensile del 49%, solo Trump (39%) ha fatto peggio dai tempi di Truman.
Il leader democratico sta preparando altri provvedimenti e rilancerà su fondi per il Covid, voting rights e Build Back Better, il piano di riforme socioeconomiche impallinato dal senatore centrista del suo partito Manchin. Tutti temi sui quali già il leader si è scontrato con il Congresso. Negli ultimi 3 mesi e mezzo, Biden è andato 3 volte a parlare a tu per tu con i senatori. Ogni volta è uscito a mani vuote. Giovedì mentre lasciava il Campidoglio poi la Corte suprema cassava l’obbligo vaccinale per alcuni lavoratori.
E nemmeno quello che è stato ritenuto subito il miglior discorso della sua stagione ha passato le forche della critica. In Georgia mercoledì si è speso per il diritto di voto e per cambiare le regole sull’ostruzionismo al Senato.
Ma anche i compagni di partito, come Nancy Pelosi, l’hanno apostrofato per essersi spinto troppo in là con la retorica finendo per associare chi non vuole le modifiche ai segregazionisti e razzisti. I nemici sono tanti, e forse Trump oggi nemmeno il più temibile.