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 2022  gennaio 16 Domenica calendario

Carlo Verdone e i 40 anni di Borotalco

Borotalco, con la sua nuvola profumata e mitologica che t’illude di essere qualcun altro e copre i sudori di una quotidianità che non è vita, è arrivato, quarant’anni fa, nel momento in cui Carlo Verdone aveva deciso di smettere con il cinema.
«Quando uscì Bianco, rosso e Verdone - racconta il regista - i produttori dell’epoca Sergio Leone e Medusa erano contentissimi. Ma Leone stava andando verso altri progetti e non aveva tempo per seguirmi. In più pensavano che la cosa andasse a morire, dopo nove personaggi consumati in due film. Non credevano che potessi affrontare un film con un unico protagonista e non mi fu rinnovato il contratto».
Glielo dissero?
«No, passano le settimane, il telefono non squilla. Malgrado il successo, i David, i Nastri, spariscono tutti. Mia moglie va a lavorare, “Ma tu che fai oggi?”. Niente. Lei: “Lo vedi? è un lavoro precario, non sicuro”».
Pensò di mollare?
«Tornai all’università a cercare il professore di Storia delle religioni, sperando di entrare come suo assistente. Scoprii che si era suicidato. In quelle settimane non sapevo cosa fare della mia vita. Poi squilla il telefono. Il mio agente dice che il produttore Mario Cecchi Gori mi vuole incontrare. Ha visto in ritardo Bianco, Rosso e Verdone, lo ha colpito il personaggio dell’emigrante muto che esplode con un’invettiva contro l’Italia. “Credo in te. Facciamo un film e se va bene firmiamo per altri quattro. Ma puntiamo su un personaggio unico”. Con Enrico Oldoini ci buttammo a scrivere, undici mesi. Non mi potevo permettere di sbagliare, da quel film dipendeva la mia carriera. Abbiamo buttato via sei soggetti».
Ne ricorda uno?
«Tutti ruotavano sull’idea di un mitomane cialtrone, un agente di Miss. Non eravamo convinti. Poi l’illuminazione: cercare di raccontare gli anni 80, la loro effervescenza, la timida rinascita, dopo il periodo delle Brigate Rosse, l’assassinio Moro.
Furono in qualche modo un decennio positivo, l’affermarsi di una nuova musica, la disco, i nuovi cantautori italiani, tra cui si fa strada Lucio Dalla, fantastico. Venne fuori Borotalco. Portammo il copione a Mario Cecchi Gori e lui disse “mi piace, titolo geniale”. Non sapeva che la Manetti &Roberts ci avrebbe minacciato causa, si fermò solo di fronte al successo del film».
Il cast è uno dei punti di forza. Da Eleonora Giorgi a Angelo Infanti, a Mario Brega.
«Eleonora l’avevo vista nel film di Manfredi, Nudo di donna. Luminosa, dinamica, energica. Poi arrivò il momento di scegliere Manuel Fantoni. Oldoini premeva per Vittorio Gassman, gli dissi: ho fatto i primi due film con attori praticamente sconosciuti. Renato Scarpa era conosciuto, ma non al grande pubblico. Infanti aveva fatto tanti ruoli, mai comici, nel Padrino di Coppola, in polizieschi, gialli. Io l’avevo voluto in Bianco, Rosso e Verdone. Lo rividi a casa di Leone a pranzo, sentendo i suoi racconti pensai che era perfetto per il megalomane. Brega era conosciuto per i western di Leone, ma come caratterista comico lo inventai io».
Moana Pozzi debuttò con lei.
«La conobbi a casa di Troisi. Era bellissima, pensai all’ennesima fiamma di Massimo, il più grande conquistatore che abbia conosciuto.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere.
Quando feci i sopralluoghi per la casa della Giorgi nel film, a Trastevere, aprì una ragazza, vidi la casa tranne la camera in cui dormiva la coinquilina, alle 12.30. Insistemmo: riconobbi la ragazza a casa di Troisi.
Indossava solo un paio di slip. Le dissi che avevo una parte per lei, in ufficio il giorno dopo le spiegai il ruolo dell’amante che si fa la doccia.
“Nessun problema con il nudo”».
L’82 è stato un anno formidabile
per il cinema, da “Rambo” a “E.T.”.
«Si cominciarono a chiudere le sale a luci rosse e a riaprire i cinema. Un po’ la spinta gliela diede Moretti. E poi io, Troisi, Nuti, i cosiddetti nuovi comici. Si respirava aria nuova e c’era bisogno di raccontare personaggi maschili diversi. Le donne nei film diventano forti. Borotalco è lo specchio della decadenza del macho italiano rappresentato benissimo da Sordi, Gassman, Manfredi. Serviva un altro tipo di commedia».
Oggi le battute sulla sessualità di John Wayne non si potrebbe fare.
«No, come pure la scena in cui Brega urla “pure colle negre”. I tempi sono diversi. Ma anche la storia tra Sergio e Nada non sarebbe più possibile, manca l’ingenuità».
Con Dalla sfiorò la lite.
«Il produttore tappezzò le strade con il poster con il suo nome enorme, il mio piccolo. Mi chiamò arrabbiato. “Non si fa così.
Ora vedo il film, se non mi piace ti faccio causa”. Andò a Bologna, non c’erano più biglietti, lo vide seduto a terra, si commosse. Il giorno dopo alle 8 telefonò: “Ti perdono perché hai fatto un bel film”».
Fece il pieno di David di Donatello. Battendo Monicelli, Sordi, Ferreri.
«Non credo che l’abbiano presa bene. Sentivo soprattutto l’invidia di una cinematografia intellettuale. Allora dovevi avere in tasca la tessera del partito, ostentare l’essere di sinistra».
Quando capì che ce l’aveva fatta?
«La sera dell’uscita. La cassiera del cinema Corso ci disse che aveva fatto un botto di soldi, Arrivò col sigaro Cecchi Gori, sapeva tutto. Dopo una settimana, per togliermi dal mercato e dai contatti con altri produttori, con mia moglie e sua moglie ci portò a Bali per 20 giorni, Borotalco è il film più importante della carriera, se non ci fosse stato, ora non sarei qui».