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 2022  gennaio 16 Domenica calendario

Generali o il romanzo del potere

Romanzo Generali, dunque. Perché al di là della evidentissima – ma mai troppo evidenziata, anche a scanso di involontarie offese – differenza tra il Libanese, il Freddo e il Dandi della banda della Magliana e i più che rispettabili protagonisti del feuilletton finanziario di questi mesi; al di là dell’ambientazione che non prevede locali notturni, colpi di pistola e vertici segreti (beh, quelli magari sì), ma solo scontri in cda, sontuosi studi di avvocati d’affari e noiosissime delibere Consob; al di là di tutto questo – si diceva – la vicenda che vede un nutrito gruppo di manager e capitalisti di primissimo piano darsele di santa ragione per stare o restare sulla groppa del Leone di Trieste, ha tutte le caratteristiche del grande romanzo italiano sul potere.
I personaggi, del resto, sono eccezionali. L’irascibile costruttore e finanziere romano, che sbatte la porta del cda, lamentando con una lettera furente che «la sua persona è stata palesemente osteggiata»; il self made man suo alleato, un uomo che ha creato un impero degli occhiali in tutto il mondo e che in vecchiaia vuole lasciare il segno anche nella finanza italiana, puntando dritto al sancta sanctorum di Mediobanca- Generali; il manager tecnocratico che è al timone della stessa Mediobanca e da là assicura che in Generali e nei rapporti con il mercato si è aperta una nuova era, mentre gli avversari lo accusano di gattopardismo. Interessante e significativo, poi, che proprio quel manager – l’ad di Mediobanca Alberto Nagel – si ritrovi nel suo istituto, come azionisti di maggioranza, gli stessi due protagonisti di cui sopra, che ovviamente puntano a fargli imboccare la porta d’uscita. Insomma, la guerra era già aperta e totale, ma da giovedì sera, quando Francesco Gaetano Caltagirone si è dimesso dal consiglio e dalla carica di vicepresidente, deflagra in pieno.
Guerra su che cosa, prima di tutto? Questo è facile: le Assicurazioni Generali, ossia la perla della finanza italiana, nata nella Mitteleuropa del 1831. Al di là delle definizioni classiche e spesso provinciali – i suoi 30 miliardi di euro di capitalizzazione sono poco più di un centesimo dei 3 trilioni di dollari che Apple ha appena toccato – stiamo parlando di una grande compagnia assicurativa europea. Il lavoro delle Generali è quello di riscuotere soldi da persone o aziende che vogliono assicurarsi contro diversi rischi. Questi soldi raccolti sono i premi, che nel 2020 per Trieste hanno superato i 70 miliardi di euro. Di fronte ai premi versati, Generali deve investire in modo accorto e prudente per poter far fronte all’eventuale pagamento ai clienti se mai si verificasse l’evento contro il quale si sono assicurati. E nel far questo deve anche, possibilmente, realizzare un profitto per i suoi soci.
Qui sta la parte più interessante: tra investimenti legati alle polizze e risparmi che gestisce per conto terzi, Generali sta seduta su 660 miliardi di euro, in pratica un terzo del Pil italiano, di cui circa un decimo, 60 miliardi, sono nostri titoli di Stato. Questo significa non solo la capacità di d istribuire solidi dividendi – nell’ultimo triennio 4,5 miliardi – ma anche un potere derivante da una capacità di fuoco finanziaria senza eguali in Italia. Se per ipotesi – ma non accadrà mai – a Trieste decidessero di vendere all’improvviso tutti i loro Btp e Cct lo spread schizzerebbe alle stelle e il governo di turno se la vedrebbe brutta. Se per ipotesi – e questo invece è successo più volte – ci fosse bisogno di un intervento “di sistema” forte, a Trieste possono avere le tasche abbastanza profonde per affrontarlo.
Ecco dunque perché le Generali contano e perché in questi mesi due schieramenti – da un lato Caltagirone e il patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio assieme a un’insolitamente avventurista Fondazione Crt, dall’altro la Mediobanca che per decenni è stata custode dello status quo – si danno battaglia senza esclusione di colpi. Anche bassi. La sintesi migliore, la danno i titoli secchissimi dei giornali tedeschi: “Machtkampf bei Generali eskaliert”, ed è l’escalation della “battaglia di potere”, o “Kräftemessen bei Generali”, ed è subito la “fiera del potere”. Potere sui soldi e sulle decisioni che quei soldi possono indirizzare. A questo si può ridurre la vicenda.
Poi, certo, c’è da aggiungere una certa componente di dramma, sempre insita nella più letteraria – e qui ovvi richiami a Kafka impiegato di concetto in quel di Trieste – delle nostre istituzioni finanziarie: si pensi ad Antoine Bernheim, banchiere d’affari che ha dominato la seconda metà del ‘900 e che, in legami altalenanti con la Mediobanca che allora davvero considerava Trieste come il giardinetto di casa, due volte arrivò alla presidenza del Leone e due volte dovette rinunciare a carica e prebende – compreso un fantastico appartamento veneziano e un aereo privato – perché detronizzato; «cacciato come non si fa nemmeno con un maggiordomo», ebbe da dire. Ma meglio non andò nemmeno a Cesare Geronzi – potere romano in purezza – che sempre via Mediobanca ebbe nel 2010 la strada spianata per la presidenza delle Generali salvo poi vedersi defenestrato nel 2011 dai grandi soci, proprio con piazzetta Cuccia in testa.
Adesso tocca a Caltagirone cacciarsi da solo. Per lesi diritti di azionista e consigliere, sostiene lui. Per motivi assai più prosaici, affermano i suoi non pochi avversari. Quali? Ad esempio il fatto che l’ormai ex vicepresidente mal sopportava i “black period” e le “insider list”, anglicismi che indicano periodi sensibili o liste di consiglieri a conoscenza di informazioni riservate e che per questo devono astenersi dal comprare e vendere azioni. Più volte in cda Caltagirone ha avuto parole dure sui limiti imposti, a suo dire proprio per impedirgli di continuare la scalata alle Generali. Con lo strappo di giovedì il grande socio dissidente ha le mani libere e potrà salire come, quando e quanto vuole. Mani libere per l’ultimo “machtkampf” che a Trieste e dintorni si concluderà, come ogni romanzo nero che si rispetti, solo quando ci saranno vincitori e vinti.