Corriere della Sera, 16 gennaio 2022
Intervista a Renzo Arbore
Renzo Arbore cavaliere di Gran Croce. Che impressione ti fa?
«Ho sorriso, quando il Quirinale mi ha chiamato, non me lo aspettavo. Poi ho chiesto: “Ma ho fatto qualcosa?”. Mi hanno risposto “No, perché sei Arbore”. Il Presidente mi ha spiegato che è per il mio lavoro e per l’impegno nella solidarietà. Cavaliere di Gran Croce è una benemerenza che emoziona, è la più alta onorificenza per meriti civili. Io non so quali meriti abbia, ma mi fido del Presidente. Ho razzolato molto nello spettacolo italiano, non solo nella televisione. Ho fatto tutto: musica, radio, cinema, teatro e ora persino i social. Non devo aver fatto danni».
Che opinione hai di Mattarella, al di là del fatto che ti ha nominato Cavaliere?
«È stato un grande presidente, silenzioso quanto equilibrato. All’inizio fu accolto senza grandi emozioni ma in sette anni si è conquistato consenso e simpatia. Un presidente riservatissimo, con una naturale timidezza, oggi amato da tutti. Penso di lui tutto il bene possibile. Ha conquistato anche gli scettici».
Facciamo un passo indietro. Raccontami Renzo bambino e la guerra.
«Della guerra io l’odore l’ho sentito, ricordo la fame di quei giorni. Ero sfollato a Chieti, ci fu un bombardamento nel Circolo degli Amici e nel ristorante Venturini, dove eravamo rifugiati in trentacinque. Avevo cinque anni, però ho capito cosa significava la parola guerra. Significava paura, fame, sangue, distruzione, abbandono della propria casa. L’arrivo degli americani è stato scioccante ma meraviglioso. È lì che mi sono innamorato di quel mondo. Un amore che non mi ha mai lasciato. Quando vedi andarsene via i nazisti armati di tutto punto, tutti mimetizzati, con i pugnali nei pantaloni, scuri, cupi, tetri e poi vedi arrivare le jeep degli americani con la musica, i piedi sui parafanghi, la cioccolata, le sigarette e i VDisc ti rendi conto della differenza tra dittatura e libertà».
Quale è la prima volta in cui hai suonato uno strumento musicale?
«La prima volta è stata una chitarra. Poi sono passato alla tromba. Ma quella che avevo comprato io era di seconda mano, per di più storta e non riusciva ad emettere dei suoni. Allora l’ho data ad un mio amico che aveva la passione per la tromba ma suonava il clarinetto, che mi ha prestato in cambio. È stato grazie a Franco, un trombettista di Foggia, che ho cominciato a strapazzare il clarinetto».
Quanto di quello spirito c’è nella meravigliosa avventura dell’«Orchestra Italiana»?
«Per me una delle ragioni della benemerenza è questa: io per trent’anni, dal ’91 al ’21, ho fatto vivere l’Orchestra Italiana, la più longeva orchestra stabile mai esistita al mondo. Neanche Duke Ellington, nessuna orchestra è durata tanto. Abbiamo calcolato che facendo sessanta, settanta concerti all’anno, in tre decenni noi abbiamo fatto più di millecinquecento concerti. Dall’Australia all’Unione sovietica, fino alla Russia di oggi. E poi il Nord America, Sud America, Cina, Giappone, Francia, Spagna, New York non ne parliamo. Però questa cosa è stata divorata dalla fama televisiva. Si ricorda spesso il primo grandissimo concerto a Radio City Music Hall nel ’93 quando abbiamo fatto sold out per giorni. Poi siamo andati in giro per il mondo, portando Italia, ma non faceva più tanto notizia. Ciò di cui siamo orgogliosi è aver fatto rivivere la grande canzone napoletana rispolverandola, riadattandola. Mai mortificandola nell’inseguimento di mode effimere e spesso volgari».
Renzo, quale è la più bella canzone italiana?
«La sigla dell’orchestra: “Era de maggio”. L’abbiamo proposta quando nessuno la conosceva, adesso tutti la cantano. Da bambino, a casa mia, dalle stanze che affacciavano sul retro ascoltavo i muratori cantare napoletano. Ma dall’altro lato dell’appartamento si sentivano gli americani nel palazzo di fronte, al Circolo ufficiali, che facevano le prove delle loro canzoni. Io ero in mezzo e assorbivo, come una spugna, queste due meravigliose suggestioni. La passione per le canzoni napoletane mi è tornata forte anche perché erano le musiche che cantavano quelli che noi chiamavamo i faticatori, cioè gli operai che stavano ricostruendo Foggia che fu bombardata severamente e che era tutta distrutta. I muratori ritiravano su la città cantando canzoni napoletane. Allora la canzone italiana quasi non c’era, si identificava con quella di Napoli».
Di «Alto gradimento» quale è il personaggio al quale sei più affezionato?
«Il più scombiccherato era Anemo Carlone. Lo ricordo con particolare affetto perché quando Gianni Boncompagni stava poco bene io lo andavo a trovare, gli mettevo sempre Anemo Carlone e lui rideva, facendomi felice. Anemo Carlone era un barone della medicina. Solo l’elenco dei titoli faceva ridere: docente di brufomania, tutte cose così. Era la geniale follia di Mario Marenco, maestro del surreale. Ho un grande rimpianto per tutti gli amici di quella trasmissione che non ci sono più».
Quanto ti divertivi?
«Moltissimo, con Giorgio Bracardi coautore, con Marenco, era una festa andare a lavorare: ci divertivamo proprio. Non abbiamo fatto satira, che non ho mai amato particolarmente. Noi facevamo autentico cazzeggio, quello che adesso langue ovunque. Cazzeggio che io poi ho portato in televisione con “Quelli della notte”».
«Per voi giovani» è stato il ’68 alla radio? E tu come hai vissuto quel periodo?
«Per la verità il ’68 io lo raccontavo, soprattutto sul versante dei nuovi linguaggi e dell’emergere di una generazione. Ma lo guardavo con sospetto. Io ero liberale, ero liberale perché filo americano, allora si diceva a-comunista con l’alfa privativo. Non volevo dire anticomunista perché tutti i miei amici erano comunisti, compresi Gianni e Raffaella».
Di «Speciale per voi» quale è stata la puntata più difficile?
«Una nella quale avevo bevuto un po’ troppo per vincere la timidezza e sono stato sostituito da Villaggio che era lì. Il programma lo facevano i protagonisti e il pubblico che rivolgeva le domande. Interpretava lo spirito del tempo: la voglia di dibattere tutto. Pubblico e personaggi dialogavano o litigavano. Si ricordano gli scontri tra i ragazzi e Claudio Villa, Caterina Caselli, Don Backy. Era tutto vero, tutto sincero. Ma due anni dopo mi chiusero la trasmissione. Forse proprio per questo».
«L’altra domenica» cosa è stata dal punto di vista del linguaggio televisivo? Per me una autentica rottura degli schemi...
«Una vera rivoluzione, devo dire la verità. Il mio obiettivo era sempre quello di fare il contrario della televisione ammiraglia, di quella tradizionale. Quindi laddove c’era la grande orchestra io pigliavo Otto e Barnelli. Laddove c’erano le vallette mute io sceglievo delle ragazze cosiddette parlanti. Ed erano Isabella Rossellini, Stella Pende, Milly Carlucci, Mimma Nocelli, tante. Le ragazze parlanti allora in televisione erano solo due: Bianca Maria Piccinino che faceva la moda sul Tg1 ed Enza Sampo’. Le altre erano vallette. Io pensavo: “Ma insomma tutte queste femministe non se la pigliano con la televisione che usa le donne solo come abbellimento?”. Laddove tutto era controllato e rigido io mettevo il telefono a disposizione del pubblico. Era la prima volta. Diciamo che le primogeniture dell’Altra domenica sono state tante: le Sorelle Bandiera, Benigni critico cinematografico, i “Gasad”, gruppi a sinistra dell’Altra domenica, con il Papa che giocava a tennis con Adriano Panatta e vinceva grazie all’aiuto dello Spirito Santo, che realizzavamo con Manuli e Nichetti. Poi il valletto Andy Luotto. Erano tutte primogeniture, erano tutte assolute novità».
Però era anche un programma pieno di informazioni, di stimoli.
«Infatti. Checché se ne pensi non era cazzeggio puro. Sotto sotto facevo vedere spettacoli di italiani e stranieri attraverso Isabella Rossellini, Françoise Riviere, Michael Pergolani, per sprovincializzare un po’. Soprattutto me stesso, perché io venivo dalla provincia e avevo trascorso intere nottate in conversazioni sui turbamenti della moglie dell’avvocato. Avevo la presunzione di far vedere cose inconsuete. Avevamo uno slogan: “Razzolare nell’inconsueto”. Per la prima volta si vedevano in Rai delle feste gay, oppure le sagre paesane di cui non si parlava mai. Tutto ciò che era inconsueto veniva scelto, in “L’altra domenica”».
E a proposito di primogeniture, come ti è venuta invece l’idea di «Quelli della notte»?
«Nel 1984 Rai Uno mi affidò il compito di festeggiare i sessant’anni della radio e feci “Cari amici vicini e lontani”. Un programma preziosissimo. Bello da conservare perché è un programma di storia. C’è tutto il Gotha dello spettacolo italiano, perché tutti erano passati da Via Asiago. Vennero Ruggero Orlando, Alberto Sordi, Nunzio Filogamo, Silvio Gigli, Nilla Pizzi, il duo Fasano, Titta Arista, Pippo Barzizza. E poi Raimondo e Sandra, Corrado, Baudo, Boncompagni, tutti i protagonisti della radio della domenica mattina di Gran varietà. C’era Monica Vitti che cantava “La paloma blanca”, c’era Antonioni, c’erano Rame e Fo. Nel 2024 saranno i cento anni di Radio Rai e sarebbe bello rivedere “Cari amici vicini e lontani”. Con questo programma arrivammo a diciotto milioni di ascoltatori. Però era un programma retrò, non per giovani. Si basava sulla nostalgia, sulle vecchie canzoni».
E questo successo ti spaventava?
«Naturalmente! Mi dissi: “E mo’, che faccio?”. Mi risposi: “Devo fare una cosa per ragazzi, totalmente diversa”. Sono stato sempre alla ricerca dell’uovo di Colombo, del nuovo, del ribaltamento. L’uovo di Colombo era allora fare un programma totalmente diverso con quaranta facce mai viste prima. Andai da Giovanni Minoli che sposò il progetto. Allora, attingendo alla mia agendina, chiamai a raccolta Gianni Mazza, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini e Maurizio Ferrini, poi il giovanissimo Frassica e tutti gli altri. “Quelli della notte”, che costruii con Ugo Porcelli, è stato un successo incredibile, entrò nel modo di parlare, cambiò anche la comicità in televisione. Ancora oggi, con l’Orchestra, quando canto “Ogni giorno la vita è una grande corrida” c’è un coro che prosegue “Ma la notte no”. È un cult, anche per chi non l’ha vissuta. Furono mesi di successo folle. Tutti volevano qualcosa da me e da noi. Avremmo potuto fare chissà che cosa: soldi, imprese, cotillon... Invece me ne andai in America per due mesi».
Scegliamo due di quella squadra fantastica: Pazzaglia e D’Agostino.
«Pazzaglia era l’umorista più forte che io ho conosciuto, insieme a Mario Marenco. Per me Pazzaglia è un grande maestro, non per niente ha scritto bellissime canzoni. Non soltanto “Meraviglioso” ma anche “Io mammeta e tu” o “Ah che bello o’ café, solo a Napoli lo sanno fa”. È un po’ dimenticato e mi dispiace. Ma Pazzaglia aveva un umorismo sottilissimo, forse fin troppo in anticipo sui tempi. Era tanto modesto quanto bravo».
E D’Agostino?
«Dago era già uno studioso del costume, faceva dei raid notturni per sapere quello che succedeva in città, nei locali. Ha avuto sempre grandissima curiosità per tutto quello che succedeva, per tutto quello che stava cambiando. “L’edonismo reaganiano” fotografava con nitidezza un passaggio del modo di vivere il proprio tempo».
Per fortuna ora molto del tuo lavoro è reperibile in rete.
«Io bazzico molto la rete. Ho un canale che si chiama RenzoArborechannel.tv. Ora c’è pure l’applicazione. Lì si trovano anche tutte le puntate di “Meno siamo meglio stiamo”, che sono bellissime. Guardati le ospitate di Benigni, Proietti, Banfi, di Jannacci che il giorno del mio compleanno mi fece piangere».
Quanto ti dà fastidio il politicamente corretto?
«Obama, in una bellissima intervista da Fazio, ha detto: “Tutti fanno quello che a loro conviene e non quello che è giusto”. Questo è ciò che mi dà più fastidio. Anche il politicamente corretto viene usato spesso solo perché conviene, non per convinzione. Ma diciamoci la verità: tanto più in questi tempi caotici, anche essere politicamente scorretti è conveniente, garantisce visibilità, scambiata per successo. Quello che non si dice è che dietro tutto questo c’è solo l’ascolto, l’Auditel. La mia frase, non ripresa da nessuno, è: “Auditel, Auditel quanti delitti si compiono in tuo nome”. È una frase irriverente, presa dalla mia cultura cattolica, apostolica, foggiana. Il successo commerciale una volta era addirittura una colpa, se un cantante vendeva troppi dischi veniva guardato con sospetto. Ora è il contrario. È la quantità che viene assunta come parametro della qualità. Se un programma fa ascolto vuol dire che è bello. Se magari cerca strade nuove, più difficili e queste non incontrano subito il gusto del pubblico allora è un fallimento. Non si trova mai un equilibrio. La cultura la si fa cercando di dare al pubblico più ampio le cose più belle».
Quanto ti è pesata o ti pesa la pandemia?
«Moltissimo. Durante la prima pandemia ho riordinato molto della mia vita e di tutte le cose che ho in casa, raccolte in tanti anni. La Regione Puglia ha deciso di ospitare il mio modernariato e il materiale della mia attività in uno dei palazzi più importanti della mia città. Sarà Casa Arbore a Foggia, nel Palazzo della Dogana».
Cosa speri per te e per l’Italia di qui in avanti?
«Che questa furiosa combattività, questo clima di odio, questo linguaggio violento, comincino a dissolversi. Spero ci sia il ritorno al volersi bene, all’apprezzare l’arte, la vita e gli altri. Spero in un’Italia meno tesa».
Mariangela Melato, il tuo grande amore...
«Mariangela è il mio codice. Tuttora quando faccio delle cose o vedo in televisione cose che mi piacciono mi domando: “Che ne avrebbe pensato Mariangela”. È un codice, perché Mariangela oltre ad essere la grande attrice che sappiamo, era una donna divertente, colta, intelligente. Dava, delle cose e delle persone, dei giudizi silenziosi, perché non invidiava né parlava male di nessuno. Però noi due ci capivamo, sapevamo, ci guardavamo e io sapevo se una cosa lei l’approvava o no. In questo senso Mariangela era il mio codice».
Immaginiamo un momento di tristezza, in questi tempi cupi. Scegli un film che ti faccia ridere.
«Un film che mi fa sempre ridere è “I ragazzi irresistibili” con Walter Matthau e George Burns. Uno dei capisaldi del cinema comico perché dentro c’è tutto il mondo del varietà di una volta. I due vecchi attori si amano ma allo stesso tempo sono rivali. Però l’analisi del comico oggi va rivista. Ne parlavamo con Roberto Benigni. Ciò che un tempo non consideravamo abbastanza, come Franco e Ciccio, oggi ci sembra bellissimo. Una coppia così ci vorranno cento anni perché rinasca, comici davvero popolari. Ma non solo loro, anche Ric e Gian. È da rivedere il giudizio su alcuni dei protagonisti dello spettacolo degli anni passati. Oggi ce ne sono tanti altri. Lillo e Greg mi piacciono molto, fanno ridere senza fare facile satira. E poi Frassica, che continua la nostra tradizione. Cazzeggio puro, surreale e popolare».