Il Messaggero, 16 gennaio 2022
16 gennaio 1969, Jan Palach si dà fuoco a Praga
Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, ventunenne universitario di Praga, si cosparse di benzina e si diede fuoco in piazza San Venceslao. Fu soccorso dai passanti e ricoverato in condizioni disperate. Morì dopo tre giorni di agonia confermando le motivazioni del suicidio: ribellarsi alla repressione sovietica e alla sua opprimente dittatura. Il suo gesto fu emulato poco dopo da alcuni amici, ma il governo aveva preso le adeguate precauzioni per evitare ogni pubblicità: i morti furono sepolti senza clamore, e i sopravvissuti internati in ospedali psichiatrici.
L’ANNESSIONE
La Cecoslovacchia aveva avuto uno strano destino. Nata dalle rovine dell’Impero asburgico dopo la prima guerra mondiale, aveva incamerato popoli di tradizioni e lingue diverse, e per assicurarne i confini le erano stati attribuiti i Sudeti, una catena montuosa abitata prevalentemente da tedeschi. Nel 1938 Hitler ne pretese l’annessione, e solo l’intervento di Mussolini, l’arrendevolezza di Daladier e l’ingenuità di Chamberlain evitarono, con il patto di Monaco, un nuovo conflitto. Poco dopo, stracciando l’accordo, Hitler invase l’intero Paese e ne fece un protettorato. Il suo reggente, il famigerato Reinhard Heydrich organizzatore della conferenza di Wannsee dove era stata decisa la soluzione finale per lo sterminio degli ebrei, fu ucciso proprio a Praga nel maggio del 42 da patrioti addestrati dagli inglesi.
I CANNONI
Dopo la guerra, con una serie di colpi di Stato e di assassinii, Stalin si impadronì della Cecoslovacchia e ne fece uno dei tanti satelliti. Mosca applicò rigorosamente il principio delle zone di influenza deciso a Yalta nel Febbraio del 1945. Ogni tentativo di ribellarsi al dominio comunista fu stroncato con gli arresti e i cannoni, prima in Polonia contro il Partito contadino, poi a Berlino Est nel 53 contro gli operai, quindi a Budapest nel 56 contro l’intera città. I proconsoli di Mosca non furono tutti uguali: Wladyslaw Gomulka e Janos Kadar furono meno ottusi di Walter Ulbricht e del bulgaro Chervenkov. In Romania, Ceausescu si spinse oltre, attuando persino una politica estera autonoma. Ma in complesso il Patto di Varsavia, l’organizzazione militare diretta dai sovietici, era un indistruttibile monolito.
La vera novità arrivò nel gennaio del 1968 con la nomina a segretario del Partito Comunista cecoslovacco di Alexander Dubcek, che teorizzò un socialismo dal volto umano, possibilmente svincolato dalla pesante ipoteca sovietica. Gli studenti prima, e l’intera popolazione poi, iniziarono a sperare in quella libertà che nazismo e comunismo avevano soppresso per un trentennio. Forse l’entusiasmo prevalse sulla prudenza, e forse la capacità reattiva dell’Orso russo fu sottovalutata. Leonid Breznev, alla guida del Cremlino, ordinò al giovane segretario di rientrare nei ranghi. Dubcek, galantuomo mite e accomodante, accettò il compromesso, e i due si incontrarono a Cierna Nad Tisou nel luglio successivo. Gli operatori notarono che i consueti abbracci e sbaciucchiamenti proletari erano meno calorosi del solito. Comunque Dubcek promise fedeltà e Breznev, diffidente, progettò l’invasione.
L’OPERAZIONE
Nella notte tra il 20 e 21 agosto i carri dell’Armata rossa, seguiti da quelli degli alleati polacchi, ungheresi, bulgari e tedeschi entrarono a Praga. L’orrore fu superato solo dal disgusto, quando alcuni vecchi membri della resistenza antinazista si videro di nuovo puntare i mitra da soldati che parlavano la lingua di Hitler. Tuttavia non ci fu un generalizzato spargimento di sangue. Il generale Jakubovskij, comandante delle truppe del Patto di Varsavia, aveva pianificato l’operazione assai bene, seguendo la massima aurea di colpire forte e sicuro, e non quella fallimentare, adottata dagli americani in Vietnam, dei petits paquets. Dubcek fu provvisoriamente incarcerato, e tornò al suo posto con una umiliante sovranità limitata. Poco dopo Breznev lo sostituì con il fedele Gustav Husak. La primavera di Praga era finita.
LE REAZIONI
Fu per protestare contro questa repressione che Palach si immolò alla maniera dei bonzi orientali. Al suo funerale parteciparono mezzo milione di persone, malgrado l’incombente minaccia di una polizia nemmeno tanto segreta. Le reazioni del mondo occidentale furono diverse, generalmente ispirate a un’indignazione sincera ma remissiva ed inerme. Gli intellettuali di sinistra, in particolare quelli di casa nostra, si barcamenarono tra casuistici distinguo, timorosi di offendere il Partito Comunista che li coccolava e li sosteneva, e che nel 56 si era schierato con i carristi che avevano schiacciato la rivolta ungherese. Con loro sorpresa, il Pci manifestò al contrario un netto dissenso. Se non fu proprio una incondizionata condanna politica e morale, fu certamente una svolta per un partito fino allora subalterno alla chiesa madre moscovita. Di conseguenza anche i nostri intellettuali, rassicurati dalle direttive di Botteghe oscure, trovarono il coraggio di ubbidire alla nuova dottrina ufficiale.
IL DISSENSOIn realtà nel Pci molti mugugnarono, e queste perplessità furono recepite negli attenti salotti romani. Comunque il dissenso tra Roma e Mosca non durò a lungo. Gli strali della sinistra ripresero a esser indirizzati contro l’America, impantanata nel Vietnam, e contro Israele, alle prese con i terroristi palestinesi. Dovettero passare altri anni prima che Berlinguer si dichiarasse più tranquillo sotto l’ombrello della Nato che sotto quello del Patto di Varsavia. Quanto a Jan Palach, la cui salma era stata furtivamente cremata per evitare pellegrinaggi sulla sua tomba, fu gratificato degli onori dovuti soltanto dopo la caduta del muro di Berlino. Il presidente Vaclav Havel, gli dedicò una piazza nella capitale e nel 1990 fu scoperta una lapide sul luogo dove si era arso vivo.
LO SGRETOLAMENTOSarebbe esagerato sostenere che questo sacrifico contribuì al crollo di quei regimi. Nemmeno le potenti personalità di Solzenichyn, di Sacharov e di altri dissidenti russi intaccarono l’ideologia fanatica delle plumbee mummie del Cremlino e la loro determinazione a reprimere ogni dissenso con le armi. Fu necessaria la miracolosa combinazione di uno straordinario Papa polacco, di un determinato presidente americano e di un realistico segretario del Pcus per iniziare quel percorso che avrebbe sgretolato l’impero sovietico e ridato la democrazia ai suoi satelliti. E sarebbe retorico affermare che Palach e i suoi amici tennero accesa la fiamma della libertà. Purtroppo davanti alla forza bruta l’ideale spinto fino al martirio conta poco, e persino Sophie Scholl e i ragazzi della Rosa Bianca sarebbero ora ignorati se le armate alleate non avessero incenerito quelle di Hitler. Ma se quella non fu una fiamma fu almeno un cerino, sufficiente a illuminare per qualche istante l’ammonimento di Tucidide: che la felicità è libertà, e la libertà è coraggio.