Corriere della Sera, 15 gennaio 2022
Intervista a Bénédicte Lutaud
Cherchez la femme! È destino che siano sempre le giornaliste francesi a intersecare le vite dei pontefici. Va così dai tempi di Leone XIII, il primo nella storia a concedere un’intervista. Uscì il 4 agosto 1892 su Le Figaro con la firma di Séverine, pseudonimo di Caroline Rémy: il 31 luglio, una domenica, era stata a colloquio con lui per 70 minuti. Guarda caso lavora al Figaro anche Bénédicte Lutaud, da poco nelle librerie con Le donne dei papi (Guerini e associati), un saggio di 280 pagine in cui ricostruisce la storia di cinque figure femminili che hanno avuto ruoli di rilievo in Vaticano negli ultimi 90 anni. Come Pascalina Lehnert, la suora tedesca soprannominata «la papessa», segretaria, governante e infermiera di Pio XII: in una delle 20 foto scattate di nascosto dall’archiatra pontificio Riccardo Galeazzi Lisi, e poi vendute a Paris Match, si vede lei, la religiosa tedesca che fu assistente di Eugenio Pacelli dal 1917 e lo accompagnò fino alla morte, seduta accanto al letto dell’augusto infermo in agonia, mentre gli infila in bocca la cannula della bombola di 0ssigeno.
Figlia di Christian Lutaud, un agnostico già docente di letteratura alla Sorbona, la giornalista, 33 anni, è stata educata al cattolicesimo dalla madre Elisabeth, logopedista. Si allontanò dalla Chiesa durante il master di giornalismo a Sciences Po, l’istituto parigino di studi politici. Si riavvicinò nel 2014. «Nella mia vita c’era un vuoto di senso. Cercavo di colmarlo con lo yoga, ma fuggii imbarazzata dalle lezioni quando m’imposero un canto religioso che mischiava Buddha, divinità indiane e Gesù». Ha un figlio nato l’anno scorso. L’ha battezzato Timothée, «colui che onora Dio», come il martire di Efeso convertito da san Paolo.
Strano, la sua ricognizione sulle donne dei papi comincia da una tomba.
«Sì, dal Cimitero Teutonico in Vaticano. Lì c’è una modesta stele, con un epitaffio in lettere rosse: “Leben ist Liebe”, la vita è amore. Più in piccolo, un nome, Hermine Speier, le date di nascita e di morte, 1898 e 1989, e una sola altra parola in tedesco: “Archäologin”».
Archeologa.
«Era donna, era straniera, era ebrea anziché cattolica. Eppure fu la prima assunta in Vaticano. L’onore di seppellirla lì, benché fosse deceduta a Montreux, in Svizzera, ha rari precedenti. Quando Rosa, Maria e Anna Sarto, le tre sorelle nubili vissute con Pio X, gli espressero il desiderio di finire nel Camposanto Teutonico per stare più vicine alle Grotte vaticane dove sarebbe stato inumato, lui rispose in dialetto: “Tose, xe mejo che andè co’ vostra mare”. Infatti furono sepolte a Riese, accanto alla madre. Lo racconta Nello Vian, figlio di un confidente del papa veneto, nel libro Avemaria per un vecchio prete».
Che ha di speciale la storia di Speier?
«Lavorava all’Istituto archeologico tedesco di Roma. Salito al potere Adolf Hitler, aveva il destino segnato. Il suo superiore, Ludwig Curtius, chiese aiuto all’amico Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani. Il quale ne parlò con Pio XI, che da quel momento la protesse. E lo stesso fece il successore, Pio XII».
L’archeologa seppe sdebitarsi.
«Eccome. Organizzò gli archivi fotografici della Biblioteca Apostolica. E ritrovò nelle cantine la testa di uno dei 12 cavalli che ornavano i frontoni del Partenone di Atene, smarrita da secoli».
Come fece suor Pascalina Lehnert a guadagnarsi il titolo di «papessa»?
«Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera, la conobbe nel 1917, quando lei aveva 23 anni. Era altera e avvenente. Ne rimase colpito. L’anno dopo la reclutò come sua governante. Lei dimostrò subito di saperci fare, difendendo il futuro papa da due bolscevichi spartachisti che, pistole in pugno, avevano fatto irruzione nella nunziatura. Nel 1920 Pacelli perse la mamma, cui era legatissimo. Trattenuto in Germania, non poté partecipare ai funerali. Cadde in depressione. A tirarlo fuori fu lei, l’infermiera Pascalina».
Più madre che sorella.
«Promosso nunzio a Berlino, la portò con sé. Con piglio marziale, mise in riga un assistente, un maggiordomo, un cameriere, un cuoco, un autista e due consorelle dedite alle faccende domestiche. Finché la più anziana pose un ultimatum: “Monsignore, o lei o noi!”. Pacelli scelse lei. Nominato segretario di Stato vaticano, la portò con sé in Italia».
Dove diventò la prima e unica donna in conclave nella storia della Chiesa.
«Quello del 1939, da cui Pacelli uscì con il nome di Pio XII. Per lei l’extra omnes non valse: doveva dare le medicine al cardinale segretario di Stato».
Caroline Pigozzi, vaticanista di «Paris Match», in un recente articolo ha ipotizzato che fra i due vi fosse del tenero.
«Non ci credo. Così come non credo alla storia della “relazione intima” fra l’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, e Laetitia Calmeyn. Sono pettegolezzi. Stiamo parlando di una stimata teologa belga, vergine consacrata. La sua vita non era un segreto per nessuno».
E allora perché Aupetit si è dimesso?
«C’entra la politica, non la sottana. Si era fatto molti nemici su molteplici dossier, scontentando destra e sinistra con i suoi modi ruvidi, di sicuro non più ruvidi di quelli che a volte dimostra papa Francesco. In molti erano diventati gelosi dell’ascendente che Calmeyn aveva sul presule come sua fedele consigliera».
Ricorda il rapporto fra Karol Wojtyła e la psichiatra polacca Wanda Półtawska.
«Delle cinque donne su cui ho investigato, lei, oggi centenaria, è la più interessante. Una storia di amicizia durata più di 50 anni, la loro. Era nella stanza di Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli dopo l’attentato del 1981. Era accanto a lui in Vaticano a controllare ogni farmaco e a prescrivergli rimedi naturali nei 143 giorni della convalescenza, con grande scandalo dei cardinali, furiosi perché un’estranea passeggiava in ciabatte nel Palazzo Apostolico. Era certamente al suo capezzale quando il Papa morì, ma il suo nome fu depennato dal comunicato ufficiale della Santa Sede. Nulla di nuovo: la stessa sorte era toccata a suor Pascalina Lehnert e a suor Vincenza Taffarel, governante e infermiera di Giovanni Paolo I. Negli atti sulla morte di papa Luciani si citano solo il segretario don Diego Lorenzi e altre figure maschili».
Wojtyła era il confessore di Półtawska.
«Fu il primo a capire il dramma di questa donna della Resistenza polacca, deportata diciannovenne a Ravensbrück. Per cinque anni i medici nazisti la usarono come cavia in esperimenti pseudoscientifici, fino a procurarle danni permanenti a una gamba. La sua scelta di dedicarsi alla psichiatria e alla difesa della vita nasce dagli orrori visti nel lager, che da allora la tormentano: bimbi appena partoriti dalle recluse gettati ancora vivi nei forni crematori. Il 22 novembre 1962 Półtawska era pronta a subire un intervento chirurgico all’intestino per l’asportazione di un cancro. Dalla sera alla mattina il tumore sparì per miracolo. Il suo amico Karol aveva scritto a padre Pio, supplicandolo di salvare quella giovane madre di quattro figli».
Gli ultimi tre papi, benché stranieri, hanno puntato su donne italiane.
«La più potente era madre Tekla Famiglietti, un’irpina che fu per 37 anni badessa generale delle suore brigidine. La migliore alleata di Giovanni Paolo II in campo diplomatico. Strappò a Fidel Castro il permesso di aprire un convento a L’Avana e rese possibile la storica visita a Cuba del Papa polacco nel 1988. Invece Benedetto XVI affidò il compito di fondare e dirigere Donne Chiesa Mondo, supplemento mensile dell’Osservatore Romano, a Lucetta Scaraffia».
Detta «la femminista del Vaticano».
«Molto apprezzata anche da Francesco, che ha scritto la prefazione di un suo libro e la chiamava al cellulare».
Qualcosa fra loro pare essersi rotto.
«Prima Scaraffia ha pubblicato il saggio Dall’ultimo banco, in cui raccontava la sua lunare esperienza di donna convocata al sinodo sulla famiglia e isolata in fondo alla sala. Fino a lì il pontefice argentino l’aveva difesa. Ma poi il Vaticano è insorto per le sue tremende accuse, molto documentate, di abusi compiuti dal clero sulle religiose, spesso costrette ad abortire, e sulle suore ridotte a inservienti senza paga di cardinali e vescovi».
In Vaticano non regna il Santo Padre?
«No, comanda la curia romana».
Ora Scaraffia è critica con Bergoglio.
«L’ho incontrata. È molto delusa, direi indignata. Ma continua ad amare il Papa e la Chiesa. Le nostre storie sono molto simili. Lei, ex sessantottina, femminista, comunista, atea, apprendista buddista, tornò alla fede entrando per caso a Santa Maria in Trastevere durante la festa per il ritorno di un’icona restaurata della Madonna e sentendo intonare l’Akathistos bizantino; io in Saint-Nicolas-des-Champs, a Parigi, un mercoledì delle Ceneri, ascoltando la frase di Paolo ai Corinzi: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza”. Lì ho capito che non erano solo le parole di un libro: era Dio che mi parlava».
Si arriverà al sacerdozio femminile?
«Non penso. Due millenni di teologia deviata hanno reso la Chiesa misogina».
Allora come spiega la leggenda della papessa Giovanna fiorita nel IX secolo?
«Proprio con l’angoscia atavica di vedere una donna che sale al trono di Pietro fingendosi uomo e partorisce in pubblico durante una processione dal Vaticano al Laterano. Donde il grottesco rituale del diacono incaricato di confermare, attraverso una sedia forata, la presenza dei testicoli nel pontefice appena eletto: “Duos habet et bene pendentes”. I preti si sono posti sul piedistallo. Invece restano peccatori, come tutti. Vedono la donna come Eva la tentatrice, anziché come Maria Maddalena, la prima testimone della risurrezione di Gesù».