Corriere della Sera, 15 gennaio 2022
Il centrodestra candida Berlusconi per il Colle
Il centrodestra chiede a Silvio Berlusconi di essere il candidato alla presidenza della Repubblica. Lui, però, non scioglie la riserva. In attesa di verificare, insieme al resto dell’alleanza, le concrete possibilità della corsa. Ma i leader di mezzo Parlamento, a partire da Pd e M5S, bocciano la proposta in maniera che lascia pochissimo margine di manovra.
Poco prima delle 14, i leader dei partiti arrivano a Villa Grande, la residenza romana di Berlusconi. Se all’entrata ci potevano essere dubbi sulla percorribilità della candidatura, nel leggere la nota finale, che arriva pochi minuti dopo le 16.30, le incertezze sembrerebbero fugate: «L’incontro – dice il comunicato – è servito a ribadire l’unità di intenti del centrodestra». Che significa «un percorso comune e coerente, che va dalla scelta del nuovo capo dello Stato alle prossime elezioni politiche, valorizzando anche le occasioni di convergenza parlamentare sui contenuti che da sempre sono patrimonio comune della coalizione». Soprattutto, «il centrodestra (sic), che rappresenta la maggioranza relativa nell’assemblea chiamata ad eleggere il nuovo Capo dello Stato, ha il diritto e il dovere di proporre la candidatura al massimo vertice delle Istituzioni». Su questa base, «i leader della coalizione hanno convenuto che Silvio Berlusconi sia la figura adatta a ricoprire in questo frangente difficile l’Alta Carica con l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita e che gli italiani si attendono». Di qui, l’invito a «sciogliere la riserva». Ultimo punto, il centrodestra lavorerà, tutto insieme, «per trovare le più ampie convergenze in Parlamento» e chiede altresì ai presidenti di Camera e Senato «di assumere tutte le iniziative atte a garantire per tutti i 1009 grandi elettori l’esercizio del diritto costituzionale al voto». In sostanza, il voto a distanza. L’intesa è quella di prendersi un’ultima settimana per verificare i numeri, anche se tutti i partecipanti temono che il leader azzurro intenda, alla quarta votazione, arrivare alla prova dell’Aula.
Qualche ora più tardi, però, arriva una seconda nota. In cui i leader si dicono «impegnati a non modificare l’attuale legge elettorale in senso proporzionale». Perché due comunicati? Perché il secondo, fortemente voluto da Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, non è stato firmato da Luigi Brugnaro, leader di Coraggio Italia. Se non una falsa partenza, qualcosa che comunque segnala fin dall’inizio differenti orizzonti strategici.
Per gli altri partiti, è un no. A partire da Giuseppe Conte, che twitta: «Per noi è un’opzione irricevibile e improponibile. Il centrodestra non blocchi l’Italia. Qui fuori c’e’ un Paese che soffre e attende risposte, non possiamo giocare sulle spalle di famiglie e imprese». Mentre il segretario pd Letta allarga le braccia: «È obbligatoria una convergenza. Il candidato deve essere unitario e non divisivo. Non un capo politico ma una figura istituzionale». E Matteo Renzi: «Berlusconi ha fatto un passo indietro, non in avanti. Italia viva è pronta a votare un nome di centrodestra ma non lui».
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Un risultato l’ha incassato Silvio Berlusconi, e non lo sottovaluta. Per la prima volta ha fatto mettere nero su bianco che l’eventuale sua candidatura non è il capriccio dell’uomo che ha inventato il centrodestra, ma è quello che gli chiedono i suoi alleati. Passo indispensabile per andare avanti in una corsa che resta difficilissima. Ed è vero che il documento poi limato, aggiustato, addirittura affiancato da un altro preteso da Giorgia Meloni con cui si assicura che non si toccherà in senso proporzionale la legge elettorale, era stato nelle sue grandi linee già predisposto dagli sherpa. Ma lui stesso ha voluto sincerarsi che non si trattasse solo di una questione di forma e non di sostanza: «Io – ha detto chiaramente ai commensali – voglio sapere se avete davvero intenzione di sostenermi. Se avete dubbi, ditemelo. Non sono costretto a fare questo passo, non è un gioco».
Che i dubbi ci siano o meno, nessuno ha avuto la voglia o il coraggio di dirlo. Tutti, da Salvini a Meloni passando per Cesa, Lupi, Brugnaro, hanno detto sì. Che sono pronti a sostenerlo, «come ha fatto anche la sinistra candidando Prodi o D’Alema». Perché, è stato il nodo politico dell’incontro, la coalizione che ha la maggioranza relativa in Parlamento ha tutto il diritto di provare a portare al Colle un esponente della propria area.
La novità però è che, per dirla con un big, ieri «finalmente Berlusconi è parso meno irragionevole». Ovvero consapevole della sfida difficilissima. Tanto che, incassato il sostegno dichiarato degli alleati, ha concluso: «Sappiate che se mi renderò conto che i voti non ci sono, sono pronto al passo indietro».
È troppo presto per capire quanto la sua intenzione di ritirarsi eventualmente dalla corsa sia reale o quanto sia tattica. Perché Berlusconi avrebbe ottenuto dagli alleati l’impegno a lavorare anche loro, non solo FI e non più con i modi folkloristici di Sgarbi, alla ricerca dei voti «soprattutto nel gruppo Misto», per arrivare a quei «50-70» che mancano per la sicurezza dell’elezione. Ma sa anche il Cavaliere, che avrebbe già «incontrato 28 parlamentari», che avere certezze è dura.
La ricerca
Il leader di FI avrebbe ottenuto dagli alleati l’impegno a lavorare sui consensi in Aula
Dire che Salvini sia uscito da Villa Grande soddisfatto è sicuramente troppo. Probabilmente, non si aspettava il ritiro della candidatura da parte di Berlusconi. Ma certamente qualche numero, qualche rassicurazione in più se li sarebbe attesi, anche se quello che ha ascoltato non lo ha scoraggiato del tutto sulle possibilità del fondatore azzurro. Da giorni sente i suoi che gli disegnano scenari preoccupanti: «Il kingmaker diventa il Cavaliere», oppure «dopo una candidatura di bandiera, mezzo Parlamento se ne uscirà con il nome di Draghi. E noi come potremmo fare a dire di no?», o ancora peggio: «Berlusconi andrà avanti diritto a esplorare le sue possibilità. Poi, quando si renderà conto che i numeri non ci sono, via libera a Giuliano Amato». Disastro. Non un uomo del centrodestra, non uno di quelli che sono nella rosa di Salvini, un centrodestra che non riesce a esprimere l’uomo a cui, per i numeri, sente di avere diritto. Anche l’enfasi con cui nella nota finale si sottolinea l’unità del centrodestra, significa anche questo: Salvini pensa di aver almeno scongiurato le eventualità elencate, le sortite individuali di Berlusconi. Ma sa di avere molto da perdere nella partita.
Ed è vero che c’è un grande non detto, che oscilla tra timore e reverenza che ancora Berlusconi incute in tutti: che succede se alla fine ci si rende conto che i voti non ci sono o se l’ex premier viene bocciato? Perché di piano B, al vertice non si è parlato. Giorgia Meloni, che ha accennato al tema, non ha ricevuto risposte: «Noi dobbiamo preservare la coalizione, non cedere a tentazioni centriste che distruggerebbero il centrodestra, e ottenere comunque un presidente non ostile». Se il tentativo su Berlusconi fallisse, e se non ci fosse una rete di protezione già approntata, la strada – teme la leader di FdI e forse auspica più d’uno nel centrodestra, tanto che anche la visita di ieri di Gianni Letta a Palazzo Chigi viene vista con sospetto – potrebbe in effetti essere quella di un’operazione di marca centrista che porti Draghi al Quirinale e il governo in carica con qualcuno che vada bene a tutti, con una modifica della legge elettorale. Giovanni Toti avverte: «Se il centrodestra dovesse fallire sul Cavaliere, poi avrebbe difficoltà a far dialogare gli altri». E Osvaldo Napoli: «Le elezioni vanno costruite con il dialogo, non con il pallottoliere».
Discorsi che ancora Berlusconi non vuole fare, convinto che sarebbe folle scoprirsi ora e non quando avrà tutti gli elementi in mano. Perché solo allora, come dicono i suoi, deciderà e «non è un pazzo, non andrà allo sbaraglio».