La Stampa, 15 gennaio 2022
Nicola Piovani ricorda Vincenzo Cerami
Scrivere un’opera, oggi. Ha accettato la sfida Nicola Piovani, premio Oscar per le musiche di La vita è bella. La sua Amorosa presenza , dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami, va in scena in prima mondiale al Verdi di Trieste venerdì 21 gennaio, lui sul podio, protagonisti Maria Rita Combattelli e Giuseppe Tommaso. Lo spettacolo è stato più volte rimandato a causa dei lockdown.
Piovani, lei fa i conti con un genere codificato e illustre. Che sensazioni le ha suscitato? E quali difficoltà ha incontrato, al di là di quelle contingenti riguardanti la pandemia?
«Un genere codificato e illustre, certo, ma anche una forma espressiva molto viva e attuale, in grado di suscitare emozioni forti, impossibili in altri generi teatrali. Di sicuro l’opera è una macchina gigantesca, muove grandi scenografie, masse di artisti e tecnici. Richiede un impegno che il teatro privato non potrebbe permettersi. È una grande nave, difficile da guidare. Per fortuna nella nostra messa in scena al timone c’è un’artista di lungo corso come Chiara Muti».
L’opera è considerata ancora importantissima e identificativa per la cultura italiana, ma spesso anche un settore d’élite, riservato a un pubblico vecchio e ricco. E, soprattutto, un’impresa proibitiva dal punto di vista economico in un momento di grande difficoltà per lo spettacolo dal vivo. Come risponde a queste obiezioni?
«La colpa dell’aspetto elitario dell’opera non è dell’opera, ma di come è politicamente gestita, di come è collocata nella cultura italiana. A partire dal costo dei biglietti. Gli spettacoli d’opera sono finanziati dal denaro pubblico, dal contribuente: che senso ha tenere alto il prezzo dei biglietti? Serve solo a selezionare il pubblico meno abbiente, che paga le tasse ma non può permettersi di assistere al Trovatore. Penso ai giovani, ma non solo. Intendiamoci, l’aspetto mondano del teatro lirico si può sempre difendere, conservando gli eventi delle prime costose, cui però dovrebbero seguire repliche a prezzi popolari. La lingua dei capolavori d’opera non è elitaria, e non è affatto "vecchia", è eterna: lo dimostra il successo planetario che ancora hanno Don Giovanni, Don Pasquale, Don Carlos… In Italia però l’analfabetismo musicale cresce di anno in anno».
Che cosa ha significato, psicologicamente e artisticamente, prendere, lasciare e riprendere un progetto per così tanto tempo?
«La prima idea dell’opera risale a una quarantina d’anni fa. Cerami e io lavorammo alla struttura del libretto per mesi, per una commissione verbale che avevo avuto dal Teatro Nazionale di Atene. Quando quella commissione cadde il progetto finì nel cassetto, e lì rimase fino a quando, tre anni fa, mi telefonò il direttore del Verdi Antonio Tasca. In un’intervista avevo detto che il mio progetto d’opera era rimandato alla prossima reincarnazione. Ma Tasca ha replicato: perché non ci proviamo in questa, d’incarnazione? Sulle prime ero diffidente, ma in una riunione col direttore artistico Paolo Rodda e l’allora sovrintendente Stefano Pace (ora questa carica è ricoperta da Giuliano Polo, ndr) mi sono lasciato convincere. Oggi sono grato a loro di trovarmi qui, in teatro, a combattere gioiosamente con le difficoltà per andare in scena».
Come ha costruito il libretto con Aisha Cerami, la figlia di Vincenzo?
«Partendo dal trattamento che avevamo steso suo padre e io. Ho scritto dei versi che potessero essere il più possibile ceramici - o ceramiani? - sotto il controllo vigile e competente di Aisha, che conosce bene la poetica di questo racconto e che ha uno spiccato senso della metrica, indispensabile per scrivere un libretto».
C’è pure il tema del travestimento e dello scambio di generi. Come lo avete trattato?
«Il travestimento è un topos della commedia classica, da Shakespeare a Mozart-Da Ponte. Amorosa presenza reca il sottotitolo di "Opera semiseria" perché abbiamo scelto la leggerezza sorridente nel raccontare le angosce adolescenziali della perdita d’identità. E, rispetto al romanzo, già nel progetto steso con Vincenzo Cerami la scelta di esplicitare il lieto fine va nella direzione della lievità giocosa. Come in un fumetto naturalistico».
Non le pare che, negli ultimi anni, Cerami sia stato un po’ dimenticato?
«Succede a molti grandi italiani. Di Cerami ho conosciuto a fondo il valore, la particolare poetica, l’elasticità artigianale. Avevo con lui un rapporto profondissimo e allegro insieme, ho condiviso con lui esperienze per me esaltanti. Ancora oggi, prima di andare in scena, dietro le quinte, me lo immagino lì, con lo sguardo impaurito e incoraggiante. E le dita incrociate».