La Stampa, 15 gennaio 2022
Un ricordo di Carlo Fruttero
La prima volta che ci incontrammo, fu a casa sua. Avevo una grande voglia di conoscerlo, non solo perché Carlo era entrato da tempo nella mitologia de La Stampa (un solo esempio: lo scontro con Gheddafi, allora socio della Fiat, bersaglio di un gustoso corsivo suo e di Lucentini, che ne aveva chiesto il licenziamento, seccamente respinto dall’Avvocato Agnelli). Ma perché, da giornalista abituato a lavorare con le parole, ero molto curioso del metodo di scrittura di questi due. Come faranno, un capitolo a testa? Uno scrive e l’altro rilegge? E se litigano, se non trovano l’accordo su un pezzo di una storia, a chi tocca l’ultima parola?
Erano questi i pensieri che mi passavano per la testa, insieme con la convinzione che magari fosse un segreto della ditta F&L, e certamente quella non sarebbe stata l’occasione giusta per provare a violarlo. L’intesa era che avremmo bevuto insieme «uno sherry», questa era stata la sua proposta, e poi saremmo andati fuori a colazione. Così entrai in questa casa elegante, d’impronta e arredamento anglo-piemontesi, e fui subito introdotto in uno studio in cui Carlo, al telefono, scudandosi a gesti e con un largo sorriso, mi faceva intendere che non avrebbe potuto interrompere la conversazione. Sulle gambe, aveva un grosso bloc-notes con le pagine vergate a mano e con qualche cancellatura. E a margine del testo scolpiva segni geometrici, quadrati, rettangoli, semplici rette, tal che, avendo intuito che parlava con Lucentini, mi chiesi se la scrittura di due grandi scrittori non avesse qualcosa a che fare con la matematica, la fisica, le formule esatte.
Niente di tutto questo. A tavola, nel suo amato “Porta rossa” dove veniva ricevuto con tutti gli onori, Carlo mi spiegò che una volta stabilito, a voce, tra loro due, l’insieme della storia, era a lui a buttar giù la prima stesura. Questione di carattere. Gli toccava perché era più aperto alla realtà, più attento, più osservatore, mentre Lucentini, leggermente misantropo e negli ultimi tempi neppure in buona salute, preferiva starsene solo a casa, limitando al telefono e sempre più alle loro telefonate, i contatti con l’esterno. Carlo inoltre era torinese, un torinese perfetto, verrebbe da dire, conoscitore di tutti i segreti grandi e piccoli di una città attaccata alle proprie tradizioni. Mentre Lucentini era romano, cinico, distaccato da quello che quasi per accidente del destino era diventato il posto in cui viveva.
«Per questo – mi spiegò Carlo – io scrivo e poi leggo ad alta voce a Lucentini». Leggeva con grande intonazione, come se recitasse e come avrebbe voluto che leggessero i loro lettori. «Di tanto in tanto, Lucentini mi ferma e dice la sua. Ma non per cambiare una parola, un verbo, un aggettivo. Piuttosto per suggerire un passaggio diverso. ‘Qui devi mettere una scala, qui una porta, qui una finestra’, così mi dice, perché di noi due lui è l’architetto della scrittura. Così anch’io, quando avverto che qualcosa non funziona, lo chiamo e gli chiedo: ‘qui cosa vuoi che metta, un corridoio, un balcone? E lui magari mi risponde: ‘Un muro’».
Questa meravigliosa lezione di artigianato di lusso mi tornò nelle orecchie di lì a poco, nel triste giorno della scomparsa di Lucentini. Un suicidio inspiegabile solo per chi non lo conosceva, dato che, gravemente malato da tempo, aveva deciso di non attraversare il passaggio più duro della sofferenza, che conduce alla fine, e s’era gettato nella tromba delle scale, realizzando l’obiettivo di andarsene con i suoi piedi. La camera ardente era stata allestita nel salone a pianterreno del palazzo de La Stampa di via Marenco. L’orazione funebre spettava a Carlo, io e una piccola delegazione della redazione vi avremmo assistito in silenzio, come vuole la liturgia di queste tristi occasioni. Francamente non sapevo cosa aspettarmi da Carlo, privato all’improvviso della sua metà letteraria. Dentro di me sapevo che sarebbe stato un discorso antiretorico, nel suo stile e per rispetto all’umorismo un po’ noir del de cuius. Ma anche in quel momento Carlo trovò modo di superare se stesso. Elegante, formale, in abito scuro come non lo avevo mai visto, lui amante dei tweed un po’ lisi, parlò del suicidio di Lucentini come se fosse stato messo a parte per tempo del progetto. Raccontò dell’amico che era sostanzialmente «un bricoleur», amante dello smontare e del rimontare tutto, del trovare una soluzione pratica, anche se non ortodossa, per qualsiasi riparazione. Così doveva aver fatto anche il giorno che aveva deciso di andarsene: non avendo pistole né veleno a disposizione, aveva trovato semplice e a portata di mano buttarsi giù per le scale.
Avevamo preso l’abitudine di trovarci al “Porta rossa” almeno una volta ogni due settimane. Carlo, negli ultimi tempi, era un po’ affaticato, smagrito. La sua figura esile s’era fatta filiforme, il suo passo era meno deciso. Invece di darci appuntamento al ristorante (lo “sherry” gli era stato proibito dai medici, ma a tavola beveva volentieri un sorso di vino), lo aspettavo sotto casa. E quando ci avviavamo per strada fingevo di non far caso al suo braccio che si appoggiava al mio. Eravamo diventati amici, forse Carlo è stato l’amico più caro che ho avuto a Torino, e questo lo consideravo un successo, considerando la nostra differenza d’età, la sua elegante riservatezza e la mia innegabile origine meridionale, aspetto che in un signore torinese “doc” qualche perplessità doveva pure generarla. A tavola parlavamo di tutto, spesso di Berlusconi (i tempi erano quelli), che lo divertiva molto. Ma più ancora della cronaca torinese, in particolare di un certo scandalo di escort in un centro massaggi, frequentato da professionisti della buona borghesia, con un giornalista scherzoso che fin dal primo giorno, nella scheda di iscrizione aveva segnato il nome e il numero di telefono di un collega, ingiustamente perseguito dalla polizia.
Un pomeriggio afoso d’estate, uscendo dal ristorante, Carlo ebbe un leggero mancamento. Sorreggendolo, capii che era molto contrariato dall’inattesa défaillance. Feci segno al titolare del “Porta rossa” di portarci due sedie, e ci rimettemmo a parlare all’aperto, sul marciapiede, uno di fronte all’altro, come se niente fosse, finché il sole assassino di luglio non scomparve dietro i palazzi, lasciando una striscia d’ombra per ritirarci.