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 2022  gennaio 15 Sabato calendario

Storia del franco tiratore

È l’unica, vera ansia che in queste ore assilla tutti i leader, ma proprio tutti. Matteo Salvini ha dovuto chiedere bruscamente al Cavaliere: «Silvio scusami: io garantisco sui voti della Lega ma tu li controlli tutti i tuoi?». Dall’altra parte della barricata, la stessa angustia dei franchi tiratori preoccupa Enrico Letta, che per le prime votazioni previste per il capo dello Stato ha ipotizzato: «Decideremo più avanti, ma sinché i giochi non sono chiari, potremmo restare fuori dall’aula». Il che, detto con altre parole, è l’unico modo per controllare i propri “grandi elettori” e impedirgli di fare di testa propria.
Come la giri, sempre lì si torna: il terrore del nemico in casa, che ti colpisce dalla tua stessa trincea. Già, perché persino in anni di memoria corta, i leader si ricordano che in 76 anni di elezioni presidenziali, quasi tutti i Capi dello Stato sono stati “fatti” non dai leader di partito, ma dai franchi tiratori. Mica per modo dire: dal 1948 i candidati-Presidente voluti dai più importanti leader sono stati bocciati in prima battuta dai grandi elettori grazie all’arma concessa dalla Costituzione: «L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto».
Ed ecco il paradosso della storia: il franco tiratore è sempre stato associato (spesso a ragione) col tradimento, ma i tanti voti segreti per il Quirinale hanno finito per temperare lo strapotere dei partiti e della partitocrazia, portando al Quirinale outsider che hanno poi costruito sul Colle il proprio carisma. La legge del voto segreto ha costretto al ripensamento, se non alla resa, fior di leader, da Alcide De Gasperi fino a Giulio Andreotti.
La prima volta risale al 1948. De Gasperi aveva appena vinto contro il Fronte popolare la sfida più importante nella storia repubblicana e dunque spettava a lui scegliere il primo candidato alla presidenza della Repubblica. De Gasperi indica il suo ministro degli Esteri Carlo Sforza, un laico poco amato dai peones Dc. Non piace ai “professorini” della sinistra, perché Sforza è un tombeur de femmes e d’altra parte per la sua altezzosità non piace neppure ai deputati della destra di cultura provinciale. Morale della storia: alla prime votazioni Sforza ottiene meno voti (353) rispetto ad Enrico De Nicola, candidato dello sconfittissimo Fronte popolare. Uno smacco per De Gasperi che però tiene su Sforza. Ma niente da fare: non sfonda neppure al secondo giro. De Gasperi capisce l’antifona: fa ritirare Sforza e il candidato del centrismo vincente diventa Luigi Einaudi. L’esito della “prima” è chiaro: persino il gigante De Gasperi è stato costretto ad arrendersi ai franchi tiratori.
Sette anni dopo il leader emergente della Dc, Amintore Fanfani, scommette su un altro laico: Cesare Merzagora, presidente del Senato, benvisto dal mondo imprenditoriale, ma assai meno dentro la Dc. Il primo scrutino ha esiti disastrosi: Merzagora ottiene 228 voti, nientedimeno che 80 in meno del candidato delle sinistre, Ferruccio Parri. La fronda Dc è stata imponente. Si insiste su Merzagora ma con effetti disastrosi: il candidato “ufficioso” di mezza Dc, Giovanni Gronchi ottiene più voti (281) rispetto ai 245 di quello “ufficiale”. Morale della storia: Merzagora è costretto a ritirarsi e viene eletto Gronchi, il candidato dei “cecchini” Dc.
Imparata la lezione? Per nulla. Nel 1964 la maggioranza della Dc è schierata al fianco di Giovanni Leone, che però è osteggiato da Fanfani, che guiderà i franchi tiratori ad una guerra di logoramento memorabile. Una battaglia raccontata dal numero di voti ottenuti da Leone nelle varie votazioni, un’altalena che diventerà memorabile e (da quel momento) irripetibile. Una striscia che merita di essere ripercorsa. Leone ottiene 319 voti al primo scrutinio e poi 304, 298, 290, 294, 278, 313, 312, 305, 299, 382, 401, 393, 406 e 386. Sfinito dai franchi tiratori, Leone si ritira e viene eletto Giuseppe Saragat. Per il professor Paolo Armaroli, costituzionalista e storico del Quirinale, «il voto segreto ha consentito di consumare la “vendetta” delle istituzioni sui leader e sui partiti, che in Costituzioni sono citati una volta sola».
Imparata la lezione? Non dal Pd. Nel 2013 il segretario Pierluigi Bersani, d’accordo con Berlusconi, mette in campo Franco Marini: più di 100 franchi tiratori dem non lo votano e il Pd lo fa ritirare precipitosamente, nonostante l’ex presidente del Senato abbia ottenuto 521 voti, che alla quarta votazione, se ripetuti, sarebbero stati sufficienti per essere eletto. Marini commenta amaro: «Una cosa volgare e ingiusta». Ma il Pd in poche ore fa il bis: calcola di nuovo male le forze in campo e lancia Romano Prodi, che ottiene addirittura 126 voti in meno di Marini. Da quel momento, col Napolitano-bis e con Mattarella, ai franchi tiratori non sarà più consentito di toccar palla. Ma dal 24 gennaio si riaprono le danze e loro sono pronti.