la Repubblica, 15 gennaio 2022
Fame e gelo: così muore l’Afghanistan
KABUL Nel tugurio di fango e sterco di Nooragha Qurban ancora aleggia l’odore acre della gomma bruciata sebbene la stufa sia spenta da ore. «L’ho accesa ieri sera quando il termometro ha cominciato a scendere molti gradi sotto lo zero, ma come combustibile avevo soltanto un piccolo copertone e una vecchia scarpa da tennis trovata in una discarica», dice quest’uomo di cinquant’anni, orbo di un occhio e senza un pollice, persi entrambi trent’anni fa quando da mujaheddin combatteva contro l’esercito sovietico. Qurban vive con i suoi dieci figli, l’ultimo dei quali, seduto mezzo nudo su una stuoia ghiacciata, è così stremato dagli stenti da non aver più la forza di piangere. Sotto la sua camicetta lercia, s’indovina il pancino gonfio, sintomo di denutrizione acuta. La famiglia di Qurban, che incontriamo in un borgo agricolo alle porte di Kabul, è la prova vivente che è già in corso la biblica catastrofe umanitaria temuta dagli esperti delle Nazioni Unite, quella che secondo il direttore del World Food Program, David Beasley, sarebbe diventata «la peggiore del pianeta». Infatti, con l’inizio del rigido inverno afghano, il freddo e soprattutto la fame hanno cominciato a mietere vittime, ogni giorno più numerose. «Da un paio di settimane nella nostra regione si stanno moltiplicando i funerali, tanto che se ne contano più adesso che in tempo di guerra. Per il momento sono soprattutto gli anziani e i bambini a morire, ma ci vorranno mesi prima che la temperatura risalga e, nel frattempo, la carestia ci avrà decimati», aggiunge Qurban.
Sei mesi dopo la conquista dei talebani anche Kabul ha un aspetto lugubre, con legioni sempre più nutrite di bambini che chiedono l’elemosina, che lavorano trascinando pesanti fardelli o che improvvisandosi lustrascarpe sostano al gelo per intere giornate. Intanto, in attesa di un visto davanti ai cancelli del consolato iraniano o di un piatto di ceci davanti alla sede di una qualche associazione umanitaria s’allungano file sterminate di disgraziati infagottatati in scialli e coperte, molti dei quali scalzi e nessuno sufficientemente coperto. «La drastica diminuzione del traffico in città è il solo effetto positivo della feroce crisi economica che sta strangolando l’Afghanistan e che è terribilmente peggiorata da quando gli studenti del Corano sono al potere: dallo scorso agosto il prezzo della benzina è raddoppiato e molta gente non ha più i soldi per fare il pieno», spiega Muhammad Ahmadi, professore di Diritto in pensione, che oggi aiuta il figlio in un negozio di copisteria. «I mercati sono pieni di cibo ma gli afghani non hanno più i soldi per comprarlo perché tutto è spaventosamente aumentato. I talebani ripetono di continuo di aver portato la sicurezza nel Paese, il che è in parte vero, poiché hanno smesso di farsi saltare in aria nei mercati o davanti alle caserme. Ma della sicurezza chi ha la pancia vuota se ne infischia».
Nei giorni scorsi ci sono state pesanti nevicate e il manto bianco conferisce alla città una certa solennità, soprattutto sulle colline che la circondano, coprendo un tessuto urbano sbrindellato e le tante brutture architettoniche generate dalla miseria. Ma la neve non nasconde i negozi vuoti, i carretti carichi di cavoli e cipolle che nessuno compra, le folle di disoccupati e i volti sempre più smagriti di una popolazione sempre più affamata. L’Onu prevede che entro giugno il 97% degli afghani rischia di ritrovarsi al di sotto della soglia della povertà, ma secondo gli operatori delle numerose ong presenti sul territorio buona parte della popolazione è già poverissima. Lo sostiene, per esempio, l’International Rescue Committee, secondo cui più della metà dei 39 milioni di afghani «sono confrontati a gravi problemi alimentari», e 9 milioni di loro sono già «in condizioni prossime alla carestia».
Tra questi c’è il sarto Mohammed Nasser, 33 anni e sei figli, che incontriamo nel quartiere di Pangsad. «Non lavoro da mesi e faccio sempre più fatica a nutrire la mia famiglia. Non mangiamo carne da settimane, e le nostre minestre sono sempre più diluite perciò i miei bambini dimagriscono a vista d’occhio. E sono preoccupato perché stanno diventando sempre più apatici. Ho ammucchiato tutte le coperte nel centro del salotto: appena cala il sole, per tenerci caldo c’infiliamo tutti là sotto. Non ho soldi per comprare un chilo di riso, figuriamoci per acquistare legna o carbone », spiega Nasser. Che la situazione stia peggiorando lo conferma da Kandahar anche Matteo Brunelli dell’Ong romana Intersos. «La crisi attuale sta amplificando in modo preoccupante alcune problematiche cicliche già esistenti, aggravate dall’inflazione galoppante e dal gran numero di famiglie che vive in campi di fortuna. La gente non ha accesso a beni di prima necessità, e la situazione avrà ripercussioni anche a medio termine. Per esempio, con meno mezzi si coltiverà di meno e questo impatterà sui raccolti del prossimo anno». Gli fa eco Gaia Giletta, responsabile del centro nutrizionale di Msf all’ospedale di Herat: «Nel reparto di malnutrizione infantile tutti i letti sono occupati, lo stesso vale per la terapia intensiva pediatrica dove riceviamo soprattutto piccoli affetti da malattie respiratorie. La situazione non fa che peggiorare».
Come unica soluzione, i talebani hanno prolungato il programma food for work, sorta di baratto istituzionale in cui decine di migliaia di dipendenti statalivengono pagati con sacchi di grano anziché in moneta locale. La settimana scorsa, il mullah Abdul Ghani Baradar, vice premier del governo di Kabul, ha chiesto al mondo di sostenere l’Afghanistan «senza pregiudizi» perché nelle valli più remote è esaurita ogni scorta di cibo, mentre l’Onu ha appena rivolto un appello ai Paesi ricchi per fornire «al più presto» 4,4 miliardi di dollari di aiuti. Dice ancora il professor Ahmadi: «Negli ultimi vent’anni sono trovati tanti soldi per fare la guerra. Ma com’è possibile che adesso non se ne trovino per sconfiggere la fame?».