la Repubblica, 9 gennaio 2022
Su "Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione" di Silvia Ferrara (Feltrinelli)
La natura non fa salti, diceva Leibnitz. Invece la cultura è tutta un salto. Ed è proprio grazie ai balzi acrobatici del pensiero che l’umanità è riuscita a trasformare l’immaginazione in realtà. E in civiltà. Lo dice Silvia Ferrara in un bellissimo libro intitolato Il salto, appena uscito da Feltrinelli. L’autrice, che insegna Civiltà Egee all’Università di Bologna, affronta un tema da far tremare le vene e i polsi come la nascita dell’astrazione. Segni, disegni, figure, pitture, fregi, graffiti, petroglifi, icone, simboli, lettere, alfabeti. Invenzioni umane nate da un’intuizione, un’idea, un guizzo, che dal trampolino del concreto, dalla materialità limitata delle cose che si vedono, si sentono, si toccano hanno spiccato il balzo vertiginoso verso l’astratta infinitudine delle «cose che non son cose», per dirla con Leopardi.
La stessa postura acrobatica guida l’itinerario dell’autrice che sceglie anche lei di farsi saltatrice, e di lanciarsi in un volo pindarico verso dimensioni remote del tempo e dello spazio. Sfarfallando tra gli albori dei segni. Dai cavalli puntinati della grotta pirenaica del Pech Merle ai megaliti di Göbekli Tepe in Turchia, dalle giraffe incise nel deserto del Sahara ai misteri di ?gantija a Malta dove l’ombra confusa delle Grandi Madri neolitiche si mescola alle impressioni della Decollazione del Battista di Caravaggio che lascia nell’isola la sua traccia altrettanto enigmatica.
Impossibile riassumere tutti i luoghi sorvolati da Ferrara che ad ogni stazione restituisce delle straordinarie sollecitazioni a pensare. La prima riguarda il primato del corpo che è all’origine di tutti i processi ideativi. Tutto parte da lì, dalle impronte delle mani, delle braccia, dei piedi che si imprimono anche negli spazi della mente, dove i neuroni creano e depositano i percorsi del ricordo e le sue sensazioni. Era vero nelle profondità del paleolitico come è vero oggi. Perché gli antenati non erano primitivi, erano già moderni. E qui Ferrara spara ad alzo zero contro ogni evoluzionismo sociale, contro lo schematismo delle date, l’asse delle successioni e delle cronologie. Che identificano la civiltà con l’agricoltura e datano la storia a partire dalla sedentarizzazione. Come se Sapiens fosse nato, o innato, col desiderio di mettere su casa e coltivare il suo orticello, di diventare un pantofolaio piantagrano, o di costruire stati e imperi.
L’autrice di fatto getta via la scala a pioli con cui generazioni di storici, archeologi e antropologi hanno surato le magnifiche sorti e progressive. Perché per creare rappresentazioni, raffigurazioni, stilizzazioni, astrazioni, e arte, non serve quella che noi chiamiamo civilizzazione. Lo facevano già i nostri lontani antenati pre-agricoli. Come quelli che quasi quarantamila anni fa hanno dato vita alla selva di profili tracciati con il carbone nelle grotte di Chauvet, i dipinti più antichi della storia. Bovini estinti e rinoceronti che si azzuffano e in alto quattro cavalli che galoppano. Tratti rapidi, veloci, ombreggiati. Movimento, animazione, furore, tremore, umano e animale per una Guernica preistorica. E pochi metri più giù campeggiano tre leoni disegnati con un solo tratto. Trentaseimila anni fa, quelli che ci ostiniamo a considerare primitivi «hanno fatto una trinità da una linea».
E hanno pure dipinto la prima donna, un corpo inequivocabilmente femminile con un bisonte che entra nel suo profilo, la possiede e ne è posseduto, diventando parte di lei. Esattamente come in un racconto di metamorfosi magica, di ibridazione mitologica, di incantesimo stregonico, ma riassunto in un solo bruciante fotogramma. Dentro quest’immagine, commenta l’autrice, appare «per la prima volta in tutta la storia delle storie, l’apriti-sesamo, il sipario che si schiude. Il primo mito». In quell’atomo di rappresentazione c’è già Picasso e l’arte concettuale, ma anche il metodo mitico di Eliot e di Joyce che fanno saltare la gabbia del prima e del poi. È il Big Bang della forma che esplode improvvisa. La mente umana che galoppa come il cavallo di Chauvet, l’arte che irrompe dal nulla sul palcoscenico dell’immaginazione. E la parola immaginazione, ricorda Ferrara, viene da immagine.
Insomma, quei nostri lontani parenti con le mani impiastricciate di argilla, carbone o guano di pipistrello, come quelli che hanno disegnato gli arcieri e i cervi di Porto Badisco, in Salento, sapevano già pensare in astratto. Accompagnavano i disegni ai segni, ghirigori, spirali, croci. Ieri come oggi le immagini non riescono a stare senza i segni. E viceversa. Basta pensare alla nostra scrittura che conserva al suo interno la traccia della figura. Messaggi con emoji. Che sono emozioni stilizzate per renderle comunicanti, parlanti. Per fare comunità attraverso la rappresentazione. Nel paleolitico come nell’antropocene.