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 2022  gennaio 11 Martedì calendario

Intervista a Francesco Lotoro - su "Un canto salverà il mondo. 1933-1953: le partiture ritrovate nei campi di prigionia" (Feltrinelli)

Questo è un romanzo lungo trent’anni. Ci sono spartiti, vite dissolte, sopravvissuti, versi imparati a memoria, note composte con l’urgenza di chi sa che quella potrebbe essere l’ultima notte. Un romanzo della perdita e della ricostruzione che oggi il pianista Francesco Lotoro, 57 anni, di Barletta, ha dipanato in un libro-memoir, Un canto salverà il mondo, in uscita il 20 gennaio per Feltrinelli. Da oltre trent’anni infatti Lotoro recupera, raccoglie e suona la musica composta nei campi di prigionia, dai lager tedeschi ai gulag sovietici. Un lavoro lungo e articolato che lo ha condotto nell’Europa orientale e in Asia, negli Stati Uniti e in Europa centrale.

«Ho cominciato per puro interesse musicale - racconta - ma poi ho visto che le vite di queste persone erano inscindibili dalla loro musica. E così, a mano a mano che incontravo i sopravvissuti o i parenti delle vittime, mi rendevo conto che questa musica ha un valore non soltanto artistico, ma anche umano, culturale, storico». E così è nato questo libro, un viaggio nelle vite delle centinaia di migliaia di compositori, strumentisti, direttori d’orchestra, storici della musica che hanno vissuto la prigionia. A cominciare, naturalmente, dalle vittime dell’Olocausto.


Generazione perduta

«Possiamo affermare senza dubbio che dal 1933, anno dell’apertura del lager di Dachau, una intera generazione di musicisti e musiciste che avrebbero potuto cambiare il corso della musica moderna venne sterminata. Naturalmente - spiega Lotoro - la storia non si può immaginare ma solo ricostruire, però faccio due nomi: Émile Goué e Viktor Ullmann. Due grandissimi innovatori del linguaggio musicale, due visionari che avrebbero potuto cambiare il quadro culturale ma che non sono riusciti a farlo».

Il libro è un rosario di vite che ruotano intorno alla musica. C’è la storia di Gideon Klein, cecoslovacco che «prima di essere internato a Theresienstadt, era stato un cervello musicale tra i più geniali della sua generazione». Ad un certo punto si persero le sue tracce ma la sorella Eliska si dedicherà totalmente a custodire la sua memoria fino alla morte, nel 1999. C’è la storia del praghese Rudolf Karel, che pur trascorrendo la maggior parte delle sue giornate nell’infermeria della prigione di Pankrác, devastato dalla dissenteria, riuscì a comporre numerose opere scrivendo sulla carta igienica con della carbonella vegetale. Con la complicità di un carceriere riuscì a mettere in salvo alcuni spartiti, ma poi il sotterfugio venne scoperto. C’è la storia di Pavel Haas, che fu trasferito a Theresienstadt ma prima del suo arresto, nel 1941, divorziò ufficialmente dalla moglie (non ebrea) per metterla al riparo.


Il paradosso

«Poi ci sono le vicende paradossali di coloro che sono riusciti a mettere in salvo le proprie opere e che sono sopravvissuti ai lager nazisti - commenta Lotoro - ma in seguito hanno perso tutto durante l’occupazione sovietica». Intrecciando le storie di uomini e donne dall’Italia alla Moldavia alla ex Unione Sovietica fino alla Germania o alla Francia, il compositore tesse un arabesco commovente, perché la musica qui assume un significato molto più profondo. «Qualche volta - dice Lotoro - saper suonare uno strumento forse non salvava la vita ma certamente la migliorava, perché si ricevevano razioni di cibo più sostanziose e si evitavano i lavori pesanti».

Nel libro c’è anche la storia di una pianista che chiese di entrare in una delle orchestre che venivano istituite nei campi di concentramento. Purtroppo il posto di pianista era già occupato e allora lei chiese di poter avere in mano una fisarmonica. Non sapeva suonarla, ma le bastò osservare i tasti per qualche minuto e imparò a farlo. Suonare, comporre, cantare: una forma di sopravvivenza, anche perché Lotoro annota che in quei casi la consapevolezza di non arrivare al giorno successivo era uno sprone a comporre le opere più belle, più chiare, quelle da ricordare. E, a proposito di memoria, moltissime di quelle composizioni vennero imparate dai parenti delle vittime e così salvate, perché al di fuori dei circuiti musicali ammessi in prigionia era vietato comporre e far circolare musica. Nell’aprile 1943 il violinista ebreo ceco Pavel Kling riuscì a portare a Theresienstadt il proprio strumento; non gli spartiti, poiché aveva interamente memorizzato il repertorio.


Gli strumenti

Naturalmente ci si arrangiava con quello che si aveva. «Grazie a deportati falegnami, nel 1938 a Dachau l’austriaco Herbert Zipper costruì strumenti musicali e assemblò un’orchestra clandestina che la domenica pomeriggio si esibiva in una latrina inutilizzata del Lager», ricorda Lotoro. Presso lo Stalag VIIIA Görlitz il compositore francese Olivier Messiaen scrisse il Quatuor pour la fin du temps nel quale violoncello e pianoforte non suonano mai alcune note perché sugli strumenti in uso a Görlitz mancavano le relative chiavette e corde. Particolarmente forte è la storia di Vittorio Longarato, internato presso il Campo britannico di Zonderwater (in Sudafrica): «Costruì un banjo-mandolino montato al contrario – Longarato era mancino – con la struttura in legno ricavata da una panca del campo (i trucioli furono gradualmente smaltiti nelle latrine); la parte superiore della cassa armonica era ottenuta dalla pelle di un coniglio barattata con un operatore esterno al campo in cambio di sigarette (la pelle si deteriorò e fu sostituita al ritorno in Italia), la fascia a forma di corona in metallo era il risultato della fusione della ghiera di una bomba».

Lunghi capitoli sono dedicati alle donne, un tema che apre un altro grande scenario: gli anni dal 1933 fino al 1953 (dunque fino alla morte di Stalin) sono anche quelli che hanno falcidiato una generazione di brillanti compositrici, strumentiste, ricercatrici della musica. Chissà, forse la storia culturale del Novecento sarebbe stata diverse se fosse stata data loro l’opportunità di esprimersi attraverso la musica, forse avremmo avuto un secolo più equo, giusto, composto sia di geni al maschile che al femminile.