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 2022  gennaio 14 Venerdì calendario

Un archivio mostruoso per le creature di Rambaldi

Tutto cominciò sul delta del Po in un anno stranissimo, l’unico in cui non si vide circolare uno storione che fosse uno. Detto così, potrà sembrare anche un dettaglio, ma per Antonio Sturla, che su quegli animali doveva girare un documentario per la Rai, si trattava di una sciagura. Guardò sconsolato le acque spopolate finché ricordò che nei dintorni della sua Ferrara viveva un ragazzino di talento. Lavorava nell’officina del padre che riparava moto e bici e poco s’interessava di due ruote, ma molto lo aveva rapito la meccanica. La velocità. Il mito di Nuvolari era cronaca. Non ancora storia. Quel giovanotto, che in realtà viaggiava intorno ai trenta, si chiamava Carlo Rambaldi. E, allora, non era nessuno. Nondimeno si offrì di dare una mano a uno dei pionieri del cinema italiano in difficoltà.
Costruì un modello, perfettamente somigliante per misura e aspetto, ai sospirati pesci, e salvò la neonata Rai degli anni ’50 e un affermato regista nelle grane. Oggi tutti sanno che quell’artigiano dell’ingegneria meccanica è il genio che poi diede vita a E.T., King Kong e Alien, valsi altrettanti Oscar, e il suo archivio è approdato alla Cineteca di Milano in venti enormi casse con oggetti d’uso, disegni, prototipi, congegni e pupazzi, affidati agli esperti dell’Accademia di Brera per il restauro e agli archivisti per catalogazione e digitalizzazione.
A dieci anni dalla sua scomparsa, i figli Daniela e Victor, presidente della Fondazione intestata al padre, hanno deciso che la miglior sistemazione del materiale di papà, in un primo momento parzialmente allestito al Palazzo delle Esposizioni di Roma nelle settimane precedenti il lockdown del 2020, non fosse un museo in quel di Vigarano Mainarda dove Rambaldi nacque a metà degli anni Venti, ma all’ombra della Madonnina.
L’anno degli storioni inesistenti fu anche quello dell’approdo nella capitale. Il documentario andava pur sonorizzato e Ferrara non era l’ombelico del cinema. Sturla si portò appresso quel ragazzone che, da Catalucci, lo studio fotografico che forniva la post produzione, arrivò con una valigia di sogni per immagini. Ne uscì un cortometraggio – anch’esso nelle mani della Cineteca – di pupazzi animati, da lui stesso creati. Come spesso accade, a uno sconosciuto con molta arte e poca parte non venne dato credito, ma a risarcire la superficialità pensò la sorte. Buona, in questo caso. E quando i soldi stavano ormai per finire e l’ambizioso Rambaldi, con moglie e il piccolo Victor appena nato, era rassegnato a rientrare a Ferrara, arriva il colpo a sorpresa.
Un amico lo scorge in un caffè di via Veneto, culla della dolce vita di allora. E salta il banco. Quella modesta comparsa di tanti peplum dell’epoca aprì al compagno le porte del successo. «Sono giorni che ti cerco – gli disse -. C’è un produttore, Antonio Ferrigno, che ha bisogno di te. Giacomo Gentilomo sta girando per lui Sigfrido e gli serve un drago». Fafner nacque così. Per caso e per sfida. Un prototipo di 50 centimetri che ruggì tutta l’ambizione del suo ideatore. Non c’erano alternative ed ebbe via libera. Un piccolo passo per Rambaldi, un grande passo per il cinema italiano che se ne sarebbe accorto solo nel tempo, anche se quel nome aveva cominciato a girare. Al punto che fece il salto in ambienti lontanissimi dalla settima arte. La cronaca giudiziaria.
Morte accidentale di un anarchico. Il caso Pinelli. Nell’Italia che si sfasciava fra complottisti di sinistra, assolutori e vulgata istituzionale, il magistrato decise per l’esperimento giudiziale. Una simulazione che richiedeva un manichino con le fattezze della vittima. E a progettarlo fu ancora lui.
Crimini e incubi che avevano rappresentato gli anni Settanta culminavano con Profondo rosso non soltanto per l’inquietante pupazzo della scena in cui viene ucciso Glauco Mauri, ma in molti altri effetti speciali, risultato del lavoro per Dario Argento che già in L’uccello dalle piume di cristallo e in Quattro mosche di velluto grigio aveva avuto una premessa importante.
Il meglio doveva ancora venire. E venne una notte in cui Dino De Laurentiis fece squillare il telefono. «Il tempo era un’opinione – spiega Victor – Hollywood non conosceva orari né orologi». Quella volta il produttore napoletano fu chiarissimo. «Carlo, mi hanno fatto un King Kong che non mi piace. Prova a dargli un’occhiata». Lui prese le valigie e partì per gli Stati Uniti. Chiese tre mesi e ottenne qualche settimana, ma il suo scimmione valse l’Oscar, e le lacrime del mondo, commosso dall’amore tragico di King Kong per Jessica Lange. Fu un segno del destino. Il remake del primo film che Rambaldi vide nel ’33 a otto anni, nel cinema del paesino dove viveva, lo aveva imposto alla ribalta internazionale. Il bis giunse con Alien, tre anni dopo, ma fu una premessa. Il capolavoro si sarebbe chiamato E.T. e bisognava attendere il 1982.
Anche stavolta tutto accadde di notte. Dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo, Spielberg voleva dar vita a un extra terrestre. «Circolava una sceneggiatura dal titolo Night skies – spiega ancora Victor Rambaldi – e si ispirava a un fatto che si diceva realmente accaduto in America. Una famiglia era stata aggredita dagli alieni». L’idea non lo convinceva e prese tempo. La soluzione venne sul set di I predatori dell’arca perduta. Spielberg, in crisi depressiva e di solitudine, decise di cambiare tutto. Il suo E.T. non doveva essere cattivo, ma una creatura buona che diventava il migliore amico di un bambino solo, con i genitori divorziati. Insomma, autobiografia.
E quella notte chiese l’innocenza. Mesi di lavoro per creare mostri con le squame finirono nel cestino e a Rambaldi si accesero due lampadine. Il gesto dell’alieno, che aveva plasmato per Incontri ravvicinati. «Poi, mio padre abbassò lo sguardo verso Chicca, la sua gatta. Un persiano con gli occhi azzurri. Ingenui». E.T. era lì che lo stava guardando. Non a caso, il triangolo del volto ricorda un felino. «E nel fondoschiena, Paperino – aggiunge Victor -. Ma quella è stata un’idea di Spielberg». E ancora oggi, dopo quarant’anni, quando è spuntato da una cassa alla Cineteca di Milano, al direttore è sfuggita una lacrima. Era tenerezza. Era gioventù. Era innocenza.