Corriere della Sera, 14 gennaio 2022
Il bottino dei saccheggi ai tempi delle leggi razziali
«Due paia di calze usate, un bidè, una maglia di lana fuori uso, un paio di ciabatte usate, un paio di pattini a rotelle, una cinghia per pantaloni rotta, una forma per pasticcini, una caffettiera in alluminio, un cappottino per bambino...» La «Gazzetta Ufficiale», ai tempi delle leggi razziali e delle requisizioni dei beni agli ebrei, arrivò ad annotare tutto. E proprio quell’agghiacciante solerzia burocratica, parallela a quella dei pediatri complici di Josef Mengele, toglie il fiato. Lo zelo amorale di quelle mezzemaniche sparse negli uffici pubblici e l’immonda indifferenza di troppi cittadini che non volevano vedere. O si spingevano talora a chiedere perfino una quota del bottino come un certo signor A. M. di Siena che arrivò a scrivere al responsabile provinciale: «Mi risulta (...) che vi sarebbero liberi alcuni appartamenti di proprietà o comunque occupati da ebrei recentemente e giustamente deportati. Domando all’Eccellenza Vostra di assegnarmi uno dei suddetti alloggi, di cinque o sei ambienti…». Un verme. Aggiungeva: «Possibilmente a muri vuoti». Senza il fastidio di smaltire le povere cose lasciate lì da chi era stato smistato ai campi di sterminio.
Il libro in uscita per il Mulino Le conseguenze economiche delle leggi razziali di Ilaria Pavan, docente di Storia contemporanea alla Normale, spazza via una volta per tutte, ammesso ce ne fosse bisogno, l’immagine di un regime e un Paese costretti a accettare «riluttanti» il razzismo antiebraico perché «forzati dall’alleato nazista». Non andò così. Non solo in Europa «l’esperienza italiana fu per lunghezza seconda solo a quella nazista» tanto che le persecuzioni dall’estate del 1938 all’autunno del 1943 furono «interamente e unicamente volute e gestite dalle autorità fasciste». Ma «da parte dell’apparato statale, tanto centrale che locale, non sembrò manifestarsi alcun cedimento nell’applicazione solerte e rigorosa della legislazione antiebraica» e «centinaia di carte e documenti esaminati non riportano nessuna voce, neppure sommessa, di dissenso o solo di dubbio o esitazione». Unico imbarazzo, forse, la meschineria di certi sequestri che evidentemente si aggiungevano alla requisizione di case, negozi e arredamenti: «Un bocchino d’ambra, tre penne stilografiche, un astuccio vuoto, un portacipria, un taccuino...»; «Un colino per té, una caffettiera in alluminio, una zuccheriera di bachelite, una tovaglia in cattivo stato»... Segno indelebile della miseria morale di chi sequestrava e arraffava. Primi tra tutti, ovvio, i gerarchi fascisti.
«Già nel dicembre 1938 – scrive Ilaria Pavan – i rapporti di polizia parlano infatti del “manifesto vampirismo praticato da esponenti del Partito che si varrebbero della loro qualità per fare i propri interessi” e di come “continuasse a correre la voce che moltissimi ariani, gerarchi del Pnf in primo luogo, abuserebbero del momento di disorientamento dell’elemento ebraico colpito dai provvedimenti del governo per fare i loro affari, magari accumulandovi quelli degli stessi ebrei”».
A quanto ammontarono complessivamente i patrimoni in case, terreni, imprese, negozi, depositi bancari, azioni e proprietà varie rubati agli israeliti? Quasi impossibile, da quantificare. Troppi morti, troppi sopravvissuti emigrati senza voler più aver niente a che fare con la vecchia patria che le aveva traditi, troppi eredi sovrastati dalle difficoltà burocratiche e troppi altri che non avevano manco l’idea di essere eredi. Certo è che, dopo le infamie delle leggi razziali e le complicità nella Shoah, l’Italia non si riscattò neppure nel dopoguerra.
Dopo la guerra la restituzione di quanto era stato confiscato non avvenne mai d’ufficio ma dietro domanda degli interessati: nessun organismo pubblico o banca si mosse da solo
Scrive nelle Cinque storie ferraresi Giorgio Bassani: «Quando, nell’agosto del 1945, Geo Josz ricomparve a Ferrara, unico superstite dei centottantatré membri della Comunità israelitica che i tedeschi avevano deportato in Germania (…) nessuno in città da principio lo riconobbe. (…) Dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po’ a tutti, e senza distinzione di fede politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio adesso, che cosa voleva? Che cosa pretendeva?». Del resto in Italia, accusa Pavan, «la restituzione dei beni non avvenne mai d’ufficio ma dietro precise domande degli interessati, in mancanza delle quali non ci fu organismo pubblico, istituto bancario o compagnia assicuratrice che restituì di sua iniziativa quanto era stato sequestrato dalle autorità nazifasciste negli anni precedenti». Perfino istituti come il Credito italiano o la Bnl arrivarono a «trincerarsi dietro il segreto bancario» e una relazione del commissario dell’Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare) del 1950 mise «in evidenza la presenza di beni non rivendicati rimasti depositati presso le banche e l’intenzione di queste ultime di attendere lo scadere dei termini di prescrizione per incamerarli».
Di tutto fecero, le stesse autorità dell’Italia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo, per non restituire quanto era stato sottratto alla minoranza perseguitata. Pesò, su tutto, «il principio della cosiddetta “buona fede” dei compratori dei beni ebraici». Fissato già alla fine del 1944 dal ministro della Giustizia del governo Bonomi, Umberto Tupini, osservando che quella restituzione «avrebbe sconvolto “un principio basilare tradizionale, accolto in tutti i moderni ordinamenti giuridici”, il fatto, cioè, che l’acquisto in buona fede “sanasse qualsiasi vizio”». Un principio, contesta Pavan, «radicalmente opposto a quelli contenuti nella legislazione emanata in altri Paesi europei a favore degli ex perseguitati razziali». Come poteva dimostrare, un sopravvissuto tornato da Auschwitz con pochi cenci addosso, la «cattiva fede» di chi si era preso tutto ciò che aveva, se era stata la stessa legge allora in vigore a consentirglielo o addirittura a spingerlo?
Finì com’era scritto che finisse: quanti cercarono d’avere giustizia furono nella maggioranza dei casi inevitabilmente sconfitti. Bianca Pesaro non riuscì a riavere la rivendita di sali e tabacchi toltale nel ‘39 perché era già stata data ad altri cui non poteva più essere tolta «senza un giustificato motivo». Testuale. Il ministero delle Finanze rispose a numerosi commercianti che contestavano la richiesta di pagare tasse per gli anni in cui erano nei chiusi lager o nascosti nelle cantine di amici «sostenendo che “da qualunque luogo il cittadino ebreo poteva spedire l’importo delle tasse da pagare”» e che «l’assenza a causa delle persecuzioni nazifasciste non era giudicata sufficiente “a giustificare un ritardo nella denuncia della cessazione di attività”». Per non dire della Prefettura di Verona che alla comunità israelita scaligera sopravvissuta all’Olocausto chiese «oltre 90.000 lire a copertura delle spese effettuate per la gestione dei beni sequestrati agli ebrei veronesi, spese comprendenti persino la quota per il mantenimento del campo di internamento per ebrei istituito dopo il giugno 1940 in una delle fortezze della città». Avevano avuto «vitto e alloggio» nelle galere razziali? Pagassero…