Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  gennaio 14 Venerdì calendario

Intervista a Nadine Sierra

Primadonna giovane, bella, in carriera, di successo, benestante.
«Ma tutto questo non è sufficiente a guadagnarti il rispetto degli altri.
Bisogna lavorare sodo affinché una società ancora troppo maschilista non ti metta i piedi in testa». E non è soltanto una questione di genere.
«Anche le origini pesano sulla considerazione che certa gente ti dimostra: negli Usa essere latine come me può portare ancora a essere discriminate». Ha tempra di dolce combattente il soprano Nadine Sierra, padre portoricano, madre portoghese. Le fanno da corazza l’amabilità, gli occhi che fissano il mondo con perenne meraviglia, il sorriso da adolescente. Sta sui palcoscenici da quand’era sedicenne, lei che di anni ne ha trentatré. L’opera l’ha sempre voluta fare dacché, bambina, si è imbattuta in un vhs della Bohème di Zeffirelli preso a prestito dalla biblioteca di quartiere e mai restituito. Sierra, che tutti i grandi teatri vorrebbero, è a Napoli. Sta provando Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti in scena al San Carlo dal 18 al 29 gennaio. È la ripresa di un allestimento firmato dal cineasta Gianni Amelio, sul podio Carlo Montanaro, nel cast anche Pene Pati e Gabriele Viviani.
Una vicenda di sopraffazione maschile: Lucia è costretta a sposare un uomo gradito al fratello, anziché quello che ama; obbedisce, ma poi ammazza il marito indesiderato prima di ammattire.
Signora Sierra, crede che questa di Donizetti sia una storia che riesce a parlare anche al presente?
«Qualsiasi donna comprende perfettamente il personaggio di Lucia, fanciulla schiacciata dalle imposizioni degli uomini. Le è stato tolto il diritto di scegliere. E il suo impazzimento non credo sia tale: lo intendo piuttosto quale momento di libertà, l’unico, che le viene concesso. Finalmente può esprimere se stessa attraverso la maschera della follia».
Chi sarebbe, oggi, Lucia di Lammermoor?
«Ognuna di noi. Perché essere donna resta difficile. La pressione, il controllo della società, specie se sei molto giovane, non ti consentono di agire come vorresti. I social, per dire, orientano il tuo comportamento, non ti fanno sentire a posto, perciò nelle ragazze più fragili possono causare disordini alimentari, problemi psicologici, di relazione. Ma talvolta neppure l’età o il successo rendono davvero libere».
Sta parlando di sé?
«Per una donna avere successo nel mondo dello spettacolo non è d’aiuto nei rapporti umani.
L’indipendenza data dalla fama e dai guadagni è vista con sospetto da tantissimi uomini. Perfino trovare un compagno può diventare difficile, perché certi pretendono di controllarti da una posizione di indiscutibile superiorità sociale, economica, emotiva. Ecco perché lavoro senza risparmiarmi tra prove, solitudine, viaggi frequenti. È il modo che ho per essere rispettata come donna e come cantante.
D’altronde sono una tosta. E lo faccio anche in omaggio alla nonna».
Che c’entra sua nonna?
«Adorava l’opera. Aveva il dono di una voce baciata da Dio. Ma il marito le impedì di perseguire quel sogno per relegarla al ruolo di casalinga. Quando mamma si è accorta che quella stessa ossessione per la lirica l’avevo ereditata io, ha fatto di tutto per darmi le opportunità che a sua madre erano state negate».
Sui social lei ha denunciato d’essere stata oggetto di razzismo nel suo Paese. Cosa è accaduto?
«L’effetto delle politiche di Trump continua a nutrire di cattiveria la pancia della società americana più retriva. Di recente ero a cena con una ricca sostenitrice di un teatro d’opera che ce l’aveva con la “feccia” portoricana. Non si rendeva conto di quanto le sue frasi potessero ferire. Le ho fatto presente che se mio padre non fosse emigrato da Porto Rico, io non sarei nata. Lei mi ha indirizzato uno guardo vuoto, evitando di rivolgermi la parola per il resto della serata. Ma sa, non sopporto la mancanza di umanità, e per come posso, mi impegno a cambiare certi modi di pensare».
Dai palcoscenici lirici si può lottare per un mondo migliore?
«Essere una star e accumulare soldi non basta a sentirsi vivi. Bisogna prima di tutto darsi da fare per essere persone perbene, comprendere di appartenere a un’umanità che non ha confini di etnie o di genere. Nel mio piccolo tento di restituire il buono che ho ricevuto suscitando emozioni in chi viene ad ascoltarmi e sostenendo i giovani artisti nei primi passi della loro carriera».
E lei, chi l’ha presa per mano agli esordi?
«Marilyn Horne, diva del belcanto, e Julius Rudel, patron della New York City Opera, grazie a cui ho debuttato a Palm Beach, ragazzina, con tanta euforia e un po’ di fifa.
Però la prima volta in Italia è stata proprio a Napoli, dieci anni fa, in Rigoletto. Esperienza che mi ha cambiato, perché solo qui, e a Palermo, alla Fenice, alla Scala, al Maggio fiorentino, dove ho cantato, si comprende quanto il melodramma riscaldi ancora i vostri cuori ed esprima una lingua di emozioni che il passare del tempo non ha scolorito».