la Repubblica, 14 gennaio 2022
Guido Rossa, il fotografo segreto in mostra
Quanto è vasta l’anima di un uomo? Quanti mondi può racchiudere? Tra gli effetti atroci della violenza c’è quello di cancellare, insieme alla nuda vita, la splendida complessità chiaroscurale della persona. La logica deumanizzante delle Brigate Rosse aveva fatto di Guido Rossa, operaio e sindacalista della Fiom-Cgil, un obiettivo da uccidere, perché era un “infame” e una “spia berlingueriana” (tre mesi prima di morire aveva denunciato chi diffondeva comunicati dei terroristi all’Italsider di Genova). Lo Stato, con il sindacato e il Pci in cui militava, l’hanno poi imbalsamato nella retorica del martire. Ma attraverso le fotografie che scattò per passione nel corso della vita (i curatori della mostra al Palazzo Ducale di Genova ne hanno selezionate settanta, su oltre un migliaio di diapositive) torna a noi come l’uomo inquieto e vitale, di poche parole e molta azione, difficile da inquadrare e per molti versi sorprendente, che era stato. Un alpinista provetto, un operaio, poi (non subito) comunista, che da ragazzo leggeva Nietzsche, nei cui aforismi ritrova la febbre di conquistare una vetta, il brivido di un lancio col paracadute. Un uomo che celava in sé dolori profondi (il suo primogenito morì ad appena due anni per una fuga di gas), l’anelito inesauribile a “fare qualcosa”, per dare un senso più grande alla vita, e insieme – scopriamo grazie a questa mostra – profondamente creativo e amante della bellezza, che coltivò la passione del disegno, della pittura e poi della fotografia. Un essere singolare e un figlio del suo tempo: nel fermento culturale e politico degli anni Sessanta e Settanta, infatti, iniziative e personaggi illuminati operavano per favorire l’accesso alla cultura e all’arte anche a chi per nascita e censo ne era sempre stato escluso, e un operaio comunista poteva trovarsi a proiettare diapositive di propri scatti non certo compiacenti (con tripudio finale di bandiere rosse che fa storcere il naso a qualche ospite) a casa della figlia del sindaco democristiano.
Sono belle, queste fotografie; mostrano un ottimo senso della composizione e dell’inquadratura (gli valsero infatti qualche riconoscimento, in vita). Rossa vi si applicava con serietà; la figlia Sabina, parlamentare dal 2006 al 2013, appena sedicenne quando il padre fu assassinato, all’alba del 24 gennaio 1979, nella sua Fiat 850, a due passi da casa, mi racconta come studiasse i luoghi in lunghe scorribande solitarie, ci tornasse all’ora in cui aveva visto una luce particolare. Ma, diversamente da tanti fotoamatori, rifugge i virtuosismi tecnici e il compiacimento estetico. Le sue immagini obbediscono a una spinta personale autentica: restano a testimoniarlo le didascalie e gli appunti, talora anche le registrazioni audio – la mostra offre qualche saggio della sua voce, accanto allo sguardo – con cui amava accompagnarle. Lasciano intravedere la maturazione di un’anima.
Non a caso, aveva cominciato a “fare sul serio” in una circostanza eccezionale: una spedizione del Cai-Uget in India e Nepal nell’autunno del 1963 per conquistare una vetta himalayana. Per il Rossa scalatore il viaggio è prima una delusione, poi una tragedia (due compagni muoiono precipitando in un canalone). Ma per l’uomo, segna la conquista di una nuova consapevolezza. Nuova Delhi e Katmandu non sono ancora le mete di pellegrinaggio mitiche di sessantottini in cerca di illuminazione, a cominciare dai Beatles, la realtà di quel mondo è quasi sconosciuta in Occidente. Rossa è sconvolto dall’incontro con la fame e una miseria «che in tutti noi ha suscitato il grande desiderio per fare qualcosa per alleviarla», scrive, ma ancor più dalla dignità e dall’umiltà delle persone che incontra sui marciapiedi e nei mercati.
E le fotografa, con interesse, rispetto, empatia. Soprattutto i bambini. «Li adorava, ne era affascinato», spiega Sabina, e sapeva incantarli: «Raccontava, raccontava, ci teneva tutti lì a raccogliere sassolini per delle mezz’ore che poi “trasformava” nelle caramelle che aveva acquistato prima», ricorda ridendo; nel catalogo della mostra la vediamo sorridere, bambina amatissima, nei disegni e nelle foto del suo papà. Gli scatti in Nepal, sottolinea Sabina, come molti altri venuti dopo, per esempio la serie dedicata a Genova, Nascita, sviluppo e... morte? di una città, «non sono fatti per il gusto di farli, ma come una sorta di denunce. Credo sia un po’ il filo conduttore, il fare qualcosa, non accettare passivamente le ingiustizie ma attivarsi, prendersi delle responsabilità per mettere in atto delle azioni». E in effetti, come emerge dalla bella biografia Giù in mezzo agli uomini (Einaudi) di Sergio Luzzatto, uno dei curatori della mostra, a partire da quel viaggio e da quelle foto cresce il lui l’urgenza di “fare qualcosa”, espressa in modo compiuto e struggente nella bellissima lettera scritta all’amico Ottavio Bastrenta nel 1970, in cui parla della necessità di abbandonare le “vette pulite e scintillanti” per calarsi nel mondo. Per lui significò scegliere di impegnarsi nel sindacato, fino alla denuncia che gli fu fatale. La fotografia lo accompagna, cresce con lui, in parallelo alla militanza politica, anche come strumento di conoscenza e relazione affettiva. Per lui, nato ai piedi delle Dolomiti e cresciuto a Torino, fotografare i paesaggi della Liguria è il modo di costruire un’intimità con una terra non sua. È ricerca della bellezza, anche nelle piccole cose, da un dettaglio di foglia di felce alle “nature vive” che coglie nelle campagne, contro la “cecità morale” di cui scrisse in un appunto. D’altra parte, Susan Sontag metteva tra i motori del fotografare, oltre al desiderio di documentare, proprio bellezza e appropriazione, nel senso di “fare proprio” qualcosa. Questa mostra allora non è solo il modo di liberare una vittima del terrorismo dalla tirannia dell’ultima immagine di morte, restituendole tutta la sua ricchezza civile e morale, un’istanza, conclude Sabina, condivisa per anni con tanti altri famigliari: «L’ho colta come una possibilità di raccontare la vita che avrebbe voluto vivere».