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 2022  gennaio 13 Giovedì calendario

Il punto di Mieli sulla corsa al Colle



A questo punto solo uno scatto di reni che porti i principali partiti – anzi tutti i partiti – a identificare e ad eleggere il presidente della Repubblica in una delle prime tre votazioni (quelle che richiedono la maggioranza di due terzi degli aventi diritto al voto) può salvare la politica italiana da un immaginabile marasma. Al massimo, i grandi elettori possono contare su altre due votazioni, la quarta e la quinta. Dopodiché si apriranno le porte dell’inferno. E non perché sia impossibile pescare alla fine un capo dello Stato, anche al ventesimo voto o addirittura oltre. L’esperienza ci dice che prima o poi qualcuno lo si trova. Cioè ovviamente si trova, magari in extremis, un accordo per mandare qualcuno al Quirinale. Ma le macerie lasciate alle spalle di quel voto finale, dopo giorni e giorni di sofferenza, produrranno effetti che una pur felice conclusione difficilmente riuscirà a far dimenticare.
Le votazioni a vuoto saranno state, ognuna, un colpo di martello, sempre più violento, alle fondamenta di un altro edificio, Palazzo Chigi dove come è noto ha sede la Presidenza del Consiglio. L’idea che si possa stare tranquilli, dal momento che a presidiare il palazzo del governo resta Mario Draghi (e che, nel caso, ci penserà Draghi a mettere lo stucco sulle crepe prodotte dalle martellate), potrebbe rivelarsi illusoria. O peggio. Non perché all’ex presidente della Bce manchi l’attitudine a compiere il genere di riparazioni di cui si è detto.
Da più di un mese Draghi dovrebbe essersi reso conto che le sue attuali mansioni sono assai diverse da quelle che Sergio Mattarella gli assegnò nel febbraio del 2021. Adesso si tratta di rassicurare e mettere al passo partiti spaventati dalla prospettiva del salto nel buio delle elezioni che prima o poi verranno. E perciò sospettosi, imbizzarriti, ma soprattutto imprevedibili. Poco propensi per di più a rispettare le regole. Inclini, ove si intraveda una convenienza, a ogni genere di slealtà.
Se il 24 gennaio questi partiti non avranno trovato un accordo per procedere immediatamente alla nomina del presidente della Repubblica su un nome che dia tranquillità e garanzie a tutti, si può star certi che le ripercussioni negative saranno immediate. E il capo del governo più che quelli dell’ex banchiere centrale dovrà vestire i panni del domatore. Tre elezioni «difficili» del capo dello Stato – quelle di Segni (1962), di Saragat (1964), di Leone (1971) – ebbero come effetto un terremoto che durò un decennio, trascinò nel baratro l’intera esperienza del primo centro-sinistra e inghiottì nel gorgo personalità del calibro di Aldo Moro e Amintore Fanfani. Provocando alla fine le prime elezioni anticipate nella storia dell’Italia repubblicana (1972). E quando nel 1992 – ai primi passi di tangentopoli – le Camere trovarono in extremis un traballante accordo solo a ridosso dell’uccisione di Giovanni Falcone (in quella occasione toccò a Scalfaro), anche qui le ripercussioni sulla scena politica furono nefaste. Per la prima volta l’Italia, per dare stabilità alle fondamenta di Palazzo Chigi, fu costretta a rivolgersi ad un «tecnico venuto da fuori» (Ciampi). Ma non bastò, se non per pochi mesi. Anche allora il Paese fu poi costretto a ricorrere a elezioni anticipate (1994). Mentre l’intera classe politica – o quasi – veniva smantellata dall’azione della magistratura.
Questo per dire che quando l’elezione del presidente della Repubblica è burrascosa, non c’è poi presidente del Consiglio che tenga. E immaginare un Draghi che fischiettando riprenda ad applicarsi ai punti del Pnrr previsti per il 2022 e alla campagna contro chissà quale nuova variante del Covid, potrebbe rivelarsi un’ingenuità. Soprattutto se il capo del governo è costretto a impegnarsi mentre i partiti della sua maggioranza si insultano, si picchiano e si tendono tranelli a ogni angolo di strada.
Tanto più che Draghi a questo punto non avrebbe più nessun’arma per riportarli all’ordine. Minacciare le dimissioni? Avrà al massimo un centinaio di giorni per fare la voce grossa. Nel mese di dicembre, i partiti, tutti, gli hanno fatto capire in ogni modo di volerlo a Palazzo Chigi giusto il tempo di allontanare per un ultimo anno la prova delle elezioni. Tempo che essi intendono dedicare alla competizione tra di loro. Indisturbati, se possibile. L’entusiasmo nei confronti di Draghi (ove mai fosse stato autentico quello di undici mesi fa) è apparso nell’ultimo mese del tutto scemato. I riconoscimenti che continuano a venire a Draghi dai grandi d’oltre confine, dalla comunità economica internazionale e dalle agenzie di rating hanno anzi indispettito una politica (la nostra) ansiosa di riprendersi quello che considera «suo». A Draghi – ha scritto con efficacia Gianfranco Pasquino (su «Domani») – verrà d’ora in poi riservato il ruolo di «parafulmine», con ciò creando una situazione «tanto inusitata quanto foriera di rischi, per lui e per il sistema politico».
Il problema non è dunque chi debba essere eletto presidente della Repubblica ma che non ci si può e non ci si deve illudere che, a presidente eletto, magari per il rotto della cuffia e a prezzo di una dura contrapposizione, i discorsi di governo possano essere ripresi dal punto in cui si erano interrotti.