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 2022  gennaio 12 Mercoledì calendario

Intervista a Gioele Dix



Cominciamo da David Ottolenghi. Chi è?
«Sulla carta di identità c’è scritto attore».
Sì, ma l’uomo?
«Mi viene in mente quando da bambino passeggiavo per i giardini di via Palestro a Milano con mio nonno Maurizio. Facevamo grandi camminate e davamo da mangiare il pane secco ai cigni. Aveva già più di 70 anni e ogni tanto lui mi diceva una cosa che non capivo: “Io dentro mi sento come quando avevo tredici anni”. Ecco, io mi sento come allora, non sono cambiato molto: sono rimasto introverso, fiducioso nel mondo nonostante tutto, anche se tengo a vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto».
Che figlio è stato?
«I miei sono scomparsi tre anni fa, quasi insieme: mia madre se n’è andata il 2 aprile, mio padre il 22. Si erano sposati l’11 aprile. Ho pensato spesso a quella coincidenza: 22 diviso 2 fa undici. Quando se ne vanno, i tuoi genitori lasciano un buco incolmabile. Gli altri ti dicono “vedrai, ti parleranno, li ritroverai...”. Balle. Poi un giorno capisci che li ha dentro, e prima non li trovavi perché li cercavi fuori. Da lì non se ne andranno più. Resti figlio per sempre».
Cos’ha preso da loro?
«Da mio padre Vittorio, avvocato, il grande amore per il ragionamento, per l’arte oratoria, per l’intergrità: faceva l’avvocato. Da mia madre Roberta, casalinga, una bella dose di fragilità, che definire sensibilità mi pare riduttivo. E l’amore per la letteratura. Era capace di leggere tre volte lo stesso libro: la prima per vedere come andava a finire, la seconda per cogliere quello che si era persa, la terza per gustarlo».
E lei che padre è?
«È un terreno terribilmente friabile. Ho una figlia grande, Marta, che ha 35 anni e tre figli: Sara di 10, Giulia di 6 e Alessandro di 4. E poi ho avuto altri due figli dalla mia seconda moglie, Mara: Maurizio e Massimo, di 5 e tre anni».
Ha notato differenze nel suo modo di essere padre, a distanza di tanto tempo?
«Con Marta ho un legame fortissimo anche complesso, tuttora molto annodato. Vuol dire che ci cerchiamo molto e non sempre ci capiamo. È un rapporto vivo. Con lei ci sono sempre stato. Ma la frase che si dice ai genitori separati che conta la qualità, più che la quantità del tempo insieme, è consolatoria. In realtà la presenza ha un suo peso decisivo. Comunque non sono mai stato il padre-amico».
E con i più piccoli?
«Avere due figli di questa età adesso è un godimento enorme. Rivedo tutte le cose belle già vissute con la maggiore: la scoperta, la crescita, l’affabulazione, la fantasia. Con loro il sole sorge nuovo ogni giorno».
È riuscito nell’impresa, oggi miracolosa, di non far mai trapelare una foto con sua moglie.
«Mara fa la consulente d’azienda e siamo riservati. Quando esplose il mio successo e mi trasferii per lavoro a Roma mi dissero subito: se vuoi farti paparazzare devi andare in quei bagni lì a Fregene o in questi quattro ristoranti a Roma. Ecco, mai frequentati. Né allora né oggi».
Possibile che nessuno la fermi per un selfie?
«Devo riconoscere che sono tutti molto rispettosi del mio spazio privato».
In un’intervista a Maria Latella anni fa si dichiarò molto favorevole ai sessantenni che stavano con le ventenni. Risposta autobiografica?
Ride. «Mara ha 41 anni, io ne ho appena compiuti 66, siamo sposati dal 2012. A noi è capitato di innamorarci. Esistono uomini maturi che stanno con donne più giovani e donne più giovani che, a loro rischio e pericolo, stanno con uomini più anziani. Noi ci siamo scelti».
Ed è adesso che cambiamo protagonista delle domande, dopo un generoso antipasto di fiducia nel suo studio milanese in zona Loreto, con appese alle pareti locandine di spettacoli, del giovanissimo Diderot che si spogliò nudo sul palco per Il Libertino, di quel romanzo dolce e profondo che è Quando tutto questo sarà finito, dove ha raccontato la storia della sua famiglia perseguitata dalle leggi razziali.
Chi è Gioele Dix?
«Lui nasce nel 1986, per andare allo Zelig, sulle ceneri di un attore di belle speranze che era già stato al Derby, aveva fatto esperienze importanti con la compagnia del Teatro degli Eguali, del Teatro dell’Elfo, Salines. Ma prima dei trent’anni mi ero fermato. Avevo iniziato con la commedia dell’arte: una sera un attore si era ammalato e avevano chiamato me per sostituirlo. Ero allenato, come affabulatore: al mio amico Renzo, che non c’è più, raccontavo le storie sui suoi compagni del Carducci, mentre io ero al Parini».
Come ha scelto il nome d’arte?
«Gioele per rendere omaggio al mondo biblico che mi appartiene. Mi piaceva l’idea del profeta, quello delle cavallette. Ai tempi non era molto usato, tant’è che anni dopo mi intervistarono perché c’era stato un incremento significativo dei bambini con il mio nome. Mi capita ancora che vengano in camerino genitori che mostrano orgogliosi i loro piccolo Gioelini».
E Dix?
«Perché a scuola tutti storpiavano il mio cognome, Ottolenghi. Poi un giorno un prof di disegno cominciò a chiamarmi “Ottodix”, dal pittore tedesco di cui ho apprezzato l’impegno artistico e politico».
La svolta arriva con l’«automobilista incazzato». Non le spiace che tutti le chiedano ancora quel personaggio?
«No, al contrario. Crearlo è stato la mia rinascita: è mio figlio. Ero un attore di prosa che, per definizione, può lavorare anche in un teatro vuoto. Anzi, se mi accorgevo di qualcuno che dormiva in fondo Ottavia Piccolo mi rassicurava: “Certi dormono già quando si apre il sipario, qui in prima fila, solo che tu non li guardi mai”. Insomma, vedevo che quelli che arrivavano dal cabaret avevano un rapporto più aggressivo con il pubblico, riuscivano a coinvolgerlo. Così ho lavorato su questo nuovo personaggio, da un’intuizione mentre guidavo: ero io, e potevano essere tutti. Da lì arrivarono le tv: Odeon, Rai 2 e Maurizio Costanzo. Dall’86 all’88 passai dall’anonimato alla fama. Dunque, per tornare alla sua domanda, di quel personaggio ne vado orgoglioso. Certo, non puoi campare solo su un colpo di genio. Ma mi capita ancora che magari al teatro dopo aver fatto Molière venga uno in camerino per chiedermi la foto con gli occhiali da sole. Io lo accontento: imparai da Gino Bramieri a essere disponibilissimo con tutti. Lui raccontava anche le barzellette, se gliele chiedevano».
Alberto Tomba è un altro suo cavallo di battaglia. Come la prese?
«All’inizio non bene: si lamentò perché lui la parola “gnocca” non la usava. Poi andai a trovarlo a casa sua per l’ultima puntata di Mai dire Gol, sulle colline bolognesi, e sull’asfalto vicino all’ingresso trovai scritto in vernice bianca: “Viva la gnocca”. Allora protestai: “Ma come?”. E lui (e qui lo imita perfettamente, ndr): “Bravo, l’han scritto dopo che l’hai detto te, mica prima!”».
Se le chiedo di scegliere un’opera teatrale?
«Il malato immaginario, con la regia di Andrée Ruth Shammah. Ho avuto la fortuna di interpretarlo molto giovane nel ruolo di Cleante, accanto al grande Franco Parenti che faceva Argan. Ne ho calzato i panni, poi, nel 2015, ed è stato un bel momento. Ho rubato tantissimo a Parenti, lo spiavo : il suo personaggio fa un lavoro di rimessa, da fondo campo; lui poteva stare zitto per quindici minuti e poi solo con due battute otteneva l’applauso. Questo succede anche a me e ne sono felice. Lo riporteremo al Parenti a settembre, per festeggiare i 50 anni del teatro».
Chi sono stati i suoi maestri?
«Uno lo abbiamo appena citato, Franco Parenti, che mi ha insegnato a essere concentratissimo e a recitare anche con il pensiero. “Solo le parole non bastano”, diceva. Poi Sergio Fantoni, cui devo il rigore e la lezione che il teatro è altro dalla realtà. E infine Antonio Salines: da lui ho imparato a giocare sul palco, a essere sfacciato e a controllare il movimento delle mani. “Te le taglio!”, tuonava».
Il pubblico più difficile?
«Quello dei bambini, con i quali mi sono allenato parecchio da giovane: è un attimo perdere la loro attenzione. Ma il loro applauso è anche il più bello, perché è uno strepitio, è pioggia che cade sul tetto».
Come ha vissuto questi due anni di lockdown?
«Male. All’inizio era ragionevole pensare che i teatri dovessero restare chiusi, poi no. Comunque abbiamo lavorato tantissimo d’estate. Tra maggio e giugno sono riuscito a recuperare tutte le date che erano state cancellate in Friuli».
Il regalo più bizzarro in camerino?
«Non mi viene in mente nulla, però posso raccontarle un episodio particolare. Stavo facendo al Parenti uno spettacolo sulla Bibbia. Arrivano gli applausi finali, poi dal buio vedo avvicinarsi una rosa che cammina e quella rosa la teneva in mano una mia ex fidanzata. Era scesa dalle poltrone più in alto, mi si era avvicinata con la rosa e aveva detto solo: “Sei sempre magico”. Poi è andata via. Mai più vista».
Il momento più emozionante di uno spettacolo?
«Quando si spengono le luci e un addetto apre il sipario: il buio che precede l’inizio è come una nascita. E ti passano per la testa mille pensieri: non vedo l’ora di cominciare, chi me l’ha fatto fare, dovevo mangiare qualcosa, meno male che non ho mangiato nulla...».

A cosa sta lavorando, adesso?
«Il prossimo spettacolo a teatro sarà La corsa dietro il vento, che è il titolo di uno dei Sessanta racconti di Dino Buzzati. Lui è l’autore che più ho riletto nella mia vita. Ho potuto coltivare una bella amicizia con Almerina, la vedova, e con la figlia di lei, Zelda: mi sono state presentate dal vostro giornalista Lorenzo Viganò, che sa tutto di Buzzati. Quando Audible ha chiesto alla famiglia di fare gli audiolibri, loro hanno voluto me. E io ora lo celebro, a cinquant’anni dalla morte».