la Repubblica, 12 gennaio 2022
I ragazzi di Weinberger
Di lui, e della sua vita, siconoscono talmente poche cose che due fondazioni a suo nome, una a New York, l’altra in Svizzera, non sono ancora in grado di sciogliere alcuni nodi cruciali. Anche perché, prima della sua morte – avvenuta a Zurigo, quindici anni fa – pochissimi conoscevano Karlheinz Weinberger, uno spilungone magrissimo e riservato che, per buona parte della sua esistenza, ha vissuto in un piccolo appartamento in compagnia di sua madre. Per sbarcare il lunario ha fatto il rappresentante di mobili e tappeti finché Siemens, il colosso tecnologico tedesco, non l’ha assunto come magazziniere nel reparto spedizioni e imballaggi. In tutto ciò, non ha mai smesso di scattare foto: le faceva nei weekend oppure di notte, dopo aver lavorato tutto il giorno in fabbrica. Della sua passione, però, erano al corrente soltanto pochissimi amici.
Imparò a fare foto da ragazzino, autodidatta. Subito dopo la Seconda guerra mondiale entrò in contatto con Der Kreis, una rivista svizzera pubblicata dall’inizio degli anni Trenta fino alla metà degli anni Sessanta e, originariamente, concentrata su questioni lesbiche (il lesbismo, a differenza dell’omosessualità, a quei tempi non era criminalizzato). Subito dopo, però, la redazione femminile abbandonò il giornale e, da quel momento in poi, Der Kreis si concentrò esclusivamente sugli interessi dei maschi gay, rimanendo alla storia per essere stata l’unica rivista di genere – era scritta in tedesco, francese e in inglese – a continuare la sua pubblicazione durante tutto il periodo del Terzo Reich. Weinberger ci entrò appena finita la guerra. Era un giovane di ventisette anni e, per pubblicare i suoi scatti, scelse uno pseudonimo, Jim, preso in prestito da Ballade Vom Neger Jim, un inno pacifista di Ernst Busch che paragonava le Jim Crow Laws, ovvero le leggi segregazioniste degli Stati Uniti, a quelle antiebree della Germania nazista. Il giovane Jim – alias Weinberger – scattava fotografie durante gli eventi degli abbonati del giornale, così le sue immagini cominciarono a circolare tra gli ambienti della sottocultura gay del dopoguerra fino a diventarne parte integrante e a rappresentare, in pochissimo tempo, un’influenza sull’estetica dell’epoca. Fu in seguito a quella sorta di tirocinio che gli venne l’idea di documentare la Zurigo degli anni Sessanta e, in particolar modo, gli halbstarke, ovvero una banda di emarginati svizzero-tedeschi che, ammiccando continuamente alla cultura nazista, iniziarono a creare disordini per le vie della città. Fu proprio uno di loro, un certo Willy Oechslin, a far da collante tra il fotografo e la banda di teppisti. I due si incontrarono per strada, un pomeriggio. L’adolescente indossava una giacca di jeans Lee, un fazzoletto al collo, una camicia sbottonata fino alla vita e un paio di jeans infilati negli stivali da cowboy. Il fotografo ne rimase folgorato e, nonostante la differenza d’età, i due diventarono subito amici. Weinberger, checondivideva casa con sua madre e che, all’evenienza, trasformava il loro salotto in uno studio fotografico, iniziò a frequentare quei ragazzi tutti i weekend. Dapprima studiandoli a distanza come un antropologo, poi seguendoli nei vari festival musicali, nei campeggi fuori città, nelle loro folli corse in moto, fotografandoli nudi e vestiti, in posa e mentre facevano l’amore. Osservando, oggi, il suo lavoro sugli halbstarke – il termine è ancora in uso per descrivere un adolescente problematico e rissoso – si fa fatica a credere che quei ragazzi dal viso spigoloso e la pettinatura fissata dalla brillantina, fanatici di Marlon Brando, Elvis Presley e James Dean, con le cinture dalle fibbie gigantesche e gli stivali, i jeans sdruciti e le camicie logore, siano stati capaci di causare, col loro atteggiamento anticonformista, caos e disordine nella Svizzera degli anni Sessanta. È un dato certo, tuttavia, che per quella simpatia nei loro confronti, nonché per via della sua omosessualità, la polizia della Germania Est inserì Weinberger nella lista nera. O meglio, come viene definita in gergo, nella pink list.
Lavorando ai suoi negativi, di recente è venuto fuori che Weinberger amava viaggiare e fotografare il Sud Italia. Un colpo di fulmine, quello per il nostro meridione, avvenuto, in realtà, all’inizio degli anni Cinquanta in Svizzera: a quei tempi – probabilmente per fare pratica – Weinberger visitava i cantieri diZurigo e fotografava gli uomini che vi lavoravano, molti dei quali immigrati del Sud Italia. Un preludio a quei maschi ruvidi, muscolosi, sudati e abbronzati che oggi, finalmente, vedono la luce grazie a Mediterraneo, il volume appena pubblicato dalla Sturm & Drang, casa editrice svizzera di preziosi libri d’arte, che raccoglie, per l’appunto, buona parte delle fotografie di Weinberger scattate nel nostro paese. Scopriamo che il primo viaggio del fotografo nel Sud Italia è avvenuto alla fine degli anni Cinquanta e l’ultimo – stando agli indumenti e alle acconciature – è stato compiuto intorno all’inizio degli anni Settanta. Agrigento, le isole Lipari e Lampedusa, Lecce, poi Napoli: Weinberger portava con sé due fotocamere, una 35 mm a colori e una 6 x 6 in bianco e nero, e passeggiava per le città e le campagne, nei porti e sulle spiagge, in cerca di soggetti e ispirato, pare, dai film di Visconti e di Pasolini. Le fotografie di Mediterraneo e, più in generale, dei suoi viaggi in Italia, sono importanti poiché rivelano il modus operandi del fotografo che, scopriamo, non si limitava a una singola istantanea. A volte, coi suoi soggetti, trascorreva un’intera giornata a mare, altre volte li seguiva e li fotografava nell’arco di diversi giorni e in luoghi differenti. In alcune foto appare anche lui. Due volte come un’ombra, una sola volta, invece, di persona: se ne sta ai margini della foto,mentre mostra la sua macchina fotografica a un ragazzo.
«Da fotografo, Weinberger amava stare nelmezzo di ogni situazione, rimanendone, tuttavia, fuori. In fondo è quel che ha fatto per tutta la sua vita» ha scritto Patrick Schedler che, da oltre vent’anni, si occupa di curarne l’archivio fotografico. Secondo Bruce Hackney, a capo della fondazione statunitense, il fotografo «in quanto gay, si è saputo identificare totalmente con gli emarginati dell’epoca. Degli halbstarken, per esempio, ammirava il modo in cui esprimevano le loro idee in maniera libera e sfrontata». È curioso, più di mezzo secolo dopo, sapere che Willy Oechslin – il giovane che introdusse il fotografo ai suoi amici -, passato qualche guaio con la giustizia per una brutta storia di documenti falsificati, finì in un istituto scolastico di regime duro e, da quel momento in poi, la sua vita continuò in maniera ordinata. Weinberger, invece, nonostante abbia fotografato senza mai fermarsi per più di sessant’anni, non ha quasi mai esposto il suo lavoro in nessuna galleria, a parte rarissime eccezioni. Sei anni prima di morire, però, cedette a una retrospettiva cheil prestigioso Museum für Gestaltung, il museo di arti figurative della sua città, Zurigo, volle dedicargli. Solo in quell’occasione, e per la prima volta, le sue fotografie furono presentate a un pubblicopiù ampio ecosì, colui che fino a quel momento era stato semplicemente Jim, diventò, per il mondo intero, Karlheinz Weinberger.