12 gennaio 2022
In morte di David Sassoli
Paolo Valentino per il Corriere
Una notte sul Reno, nella città dei destini d’Europa. La sera del 2 luglio 2019, a Strasburgo, David Sassoli e Roberto Gualtieri rendono discretamente visita alla capogruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, la spagnola Iraxte Garcia Perez. È in ballo l’elezione del nuovo presidente dell’Assemblea dell’Ue. La più simbolica e democratica delle cariche apicali è rimasta fuori dall’accordo che prevede l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione e di Charles Michel a quella del Consiglio europeo. È la mossa decisiva, che il mattino dopo aprirà a Sassoli la strada della presidenza dell’Europarlamento. «Cuore e ambizione» furono le ultime parole del suo bel discorso d’investitura, dedicato al rilancio del processo d’integrazione e alla necessità di «mettere le ragioni della lotta politica al servizio dei cittadini, ascoltandone desideri, paure, necessità».
Cuore e ambizione. Descrivono bene David Sassoli, che ci ha lasciati ieri dopo lunghi mesi di sofferenza, affrontati con stoicismo e straordinaria capacità di dissimulare una condizione che si aggravava giorno per giorno. Se ne va una persona per bene, dolce e pacata. Se ne va un grande europeo. Se ne va un uomo intelligente e appassionato, che ha guardato alla politica come servizio e strumento di cambiamento.
Aveva una bella vena ironica David. Assomigliava al giovane Robert Redford, occhi azzurri, chioma al vento, zigomi alti. E a suo modo ci giocava: «L’aspetto non mi ha mai ostacolato — diceva con il suo sorriso inconfondibile — ma non sono un divo, anzi sono molto noioso».
Invece un po’ «divo» lo era, nella sua prima vita da giornalista. Da inviato speciale del Tg3 di Sandro Curzi per i fatti di mafia e criminalità organizzata, da collaboratore di Santoro per Il Rosso e il Nero e soprattutto da conduttore del Tg1 delle 20, Sassoli è stato per anni uno dei volti più amati della Rai.
Nel giornalismo è stato figlio d’arte. Suo padre, Domenico, che aveva combattuto nella Resistenza, fu una firma di politica estera a La Nazione e al Popolo. Ma le mostrine, David se l’è conquistate da solo. Raccontano che nel 1985 l’assunzione al Giorno venne favorita dallo scoop che aveva rivelato a un collega di Famiglia Cristiana dopo un viaggio a Parigi: Gianni De Michelis aveva detto a Oreste Scalzone che si stava lavorando a un’amnistia. Sassoli lo aveva saputo da Scalzone. Il settimanale pubblicò la notizia. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini andò su tutte le furie e il ministro socialista gliela giurò. Ma il fiuto del ragazzo, non ancora trentenne, gli valse l’ingresso al giornale dell’Eni.
David Sassoli era nato a Firenze nel 1956, «classe di ferro» ci dicevamo spesso durante le nostre conversazioni. Ma anche se tifava Fiorentina e aveva Giorgio La Pira nel suo Pantheon, le radici le aveva messe a Roma. Fu al Liceo Virgilio che conobbe Alessandra Vittorini, la compagna di scuola che poi sposò e con la quale ebbe due figli. Il mondo della sua formazione intellettuale è stato quello del cattolicesimo progressista romano: Aldo Moro, Vittorio Bachelet e soprattutto Pietro Scoppola.
Una figura più di altre, il giornalista Paolo Giuntella, che gli fu mentore e amico, ha segnato il suo percorso. Sassoli è stato attivo nei circoli animati da Giuntella, come «Il Ferrari» e «La Rosa Bianca», quest’ultimo ispirato all’omonimo movimento dei giovani cristiani tedeschi che si opposero al nazismo. Un legame così forte, che nel discorso d’investitura a Strasburgo, Sassoli aveva citato proprio Sophie e Hans Scholl, i leader della Weiss Rose: «La nostra storia è scritta nel loro desiderio di libertà».
All’impegno pubblico, David arrivò nel 2009, quando Walter Veltroni diede vita al Partito Democratico. Con la sua aria kennedyana, fu un candidato perfetto per le elezioni europee: capolista nel collegio dell’Italia Centrale, venne catapultato a Strasburgo da oltre 400 mila preferenze. Sassoli non lo sapeva, ma stava dando ragione a Henry Kissinger che una volta mi disse: «Journalism is for boys», il giornalismo è per i giovani. Sarebbe stato rieletto per due volte, nel 2014 e nel 2019, sempre con una valanga di voti.
David era tranquillo, paziente e tenace. La passione per il giardinaggio, che praticava nel buen retiro di Sutri, ne era conferma. «Io pianto e zappo», amava dire. Lo ha fatto molto bene anche alla presidenza dell’Europarlamento, che ha guidato con «cuore e ambizione» in un passaggio storico difficilissimo, quello della pandemia, della crisi economica più grave del Dopoguerra e infine di un rilancio in grande stile del processo d’integrazione europea che non era affatto scontato. Sassoli ne ha fatto uno dei protagonisti della lunga e complessa trattativa che ha portato al Next Generation Eu. Con ostinazione, intelligenza e quando è servito con durezza. Ma senza mai dimenticare l’ironia: sua è la definizione «formato Conclave di Viterbo» per le tre notti in cui i capi di Stato e di governo furono rinchiusi nel palazzo del Consiglio per negoziare non stop il Recovery fund.
«Questo tempo ci dice che dobbiamo avere più coraggio e che su certe decisioni l’Europa non può più indugiare. Il progresso sociale ed economico non può più dissociarsi da quello ecologico. L’Europa funzionerà se tutti saremo concentrati sulla riduzione delle disuguaglianze e sull’impegno comune a lasciare alle nuove generazioni un futuro più giusto». Queste parole Sassoli le ha scritte, quando già stava molto male, nella prefazione al libro di Donato Bendicenti di prossima pubblicazione, «Il lungo viaggio dell’Europa per ritrovare sé stessa». Consideriamole il suo testamento morale e politico. Quello di un uomo che fino all’ultimo non ha smesso di pensare la politica come capacità di disegnare il mondo. Purtroppo, David il suo viaggio lo ha finito prima del tempo. La terra gli sia lieve.
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Eleonora Capelli per la Repubblica
L’ultima cena insieme a Bologna, lo scorso autunno, con il compagno di liceo e amico di sempre, il cardinale Matteo Zuppi. Poi il professor Romano Prodi — ex presidente della Commissione Ue — e David Sassoli hanno continuato a sentirsi al telefono, per Natale e per progettare nuovi incontri nella città dove studia anche il figlio minore del presidente del Parlamento Europeo, Giulio. Ora rimane il vuoto di una personalità che secondo Prodi «sarebbe stata una risorsa per il futuro della politica italiana e europea». E che partecipò al gruppo di intellettuali che piantò il primo seme dell’Ulivo.
Professor Romano Prodi, in che modo era legato a Sassoli?
«In modo profondo, ci univa un comune sentire. Ci parlavamo spesso, ci “confessavamo” sull’Europa. Quando è stato meglio, dopo la polmonite, sotto Natale, ci siamo accordati per la chiusura di un ciclo di conferenze, in febbraio.
Nessuno pensava che potesse succedere una tragedia simile.
È perfetto, per ricordarlo, il passo del Vangelo: “I miti possiederanno la terra”. La mitezza non è debolezza, era invece la sua grande forza. Con essa, David ha convinto tutti della bontà delle sue idee».
Lei quale momento sceglierebbe per ricordarlo?
«Pochi mesi fa, l’11 luglio, eravamo insieme in una giornata di sole a Fossoli, in quel terribile luogo di smistamento dei deportati italiani verso i campi di concentramento nazisti. C’era da un lato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, tedesca, dall’altro Sassoli, presidente del Parlamento europeo, italiano. Non si è trattato solo di un momento di riconciliazione, già costruita nel tempo, ma un momento che esprimeva, anche con una forte emozione, la ferma volontà di chiudere per sempre con il passato. C’era la consapevolezza che l’Europa si fonda sulla riconciliazione non solo dei vertici, ma delle persone. Anche se si commemorava qualcosa di profondamente doloroso, l’atmosfera era gioiosa e David è stato il punto di riferimento di quella giornata nella quale, io credo, vi sia racchiusa la sintesi del pensiero politico e dell’impegno sociale di Sassoli: riconciliazione profonda, unità, solidarietà e giustizia sociale».
Sassoli, uomo del dialogo, aveva scelto di fare un passo indietro sulla ricandidatura al Parlamento Europeo. Ne avevate parlato?
«Abbiamo parlato molto di questo, la situazione era singolare. La sua presidenza era stata talmente conciliatrice che un numero di persone non piccolo pensava valesse la pena rompere la tradizione che vede l’alternanza, alla presidenza del Parlamento, tra socialisti e democristiani. Sarebbe rimasto volentieri, ma mi disse: “Lo farò solo se ci sarà unanimità, non voglio portare nessuna rottura, non voglio una battaglia che rompa gli schemi e gli accordi che reggono il filo della solidarietà europea”. Ma non vi era nelle sue parole, posso assicurarlo, nessuna amarezza».
Il dialogo era stato fondamentale nell’esperienza intellettuale e politica che vi ha visto insieme, dal 1975 al 1987, nella Lega Democratica, con suo fratello Paolo Prodi, Achille Ardigò, Ermanno Gorrieri e Pietro Scoppola. Un movimento cattolico che fu il primo seme dell’Ulivo, secondo alcuni studiosi. Lei è d’accordo?
«Assolutamente sì. L’iniziativa partì da un gruppo di cattolici apertissimi, assetati di capire i cambiamenti che si stavano verificando. Era un gruppo molto attento ai valori ereditati dalla tradizione, ma che guardava al futuro. Debbo molto anche io a quella formazione, soprattutto rispetto alla creazione dell’Ulivo: veniva da quella esperienza l’idea di mettere insieme eredità diverse, ma con valori comuni. Allora non si pensava alla costruzione di un partito, ma c’era il desiderio di un clima culturale che interpretasse i segnali nuovi e il futuro che si stava preparando, per costruire un riformismo più ampio, che unisse cattolici e non cattolici».
Lei crede che nel Next Generation Eu, il piano per la ripartenza dell’Europa dopo la pandemia, si ritrovi questa lezione?
«Sassoli ha portato con sé, al Parlamento Europeo, proprio questa formazione politica. Il Recovery Plan era per lui una via intrapresa da cui non sarà possibile tornare indietro: la solidarietà europea non come un episodio, o una parentesi, ma come l’inizio di una svolta verso una via nuova per l’Europa. Facevamo lunghe discussioni su questo, sulla doverosa presa di coscienza da parte dell’Europa di un cambiamento destinato durare nel tempo. E le ultime parole che ci siamo detti, con il suo tono pieno di volontà e di fiducia, sono state: “Vedi che ce la facciamo”».
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Claudio Tito per la Repubblica (2 pezzi)
«La sua eredità è l’Europa dei cittadini ». Paolo Gentiloni ha la voce a tratti deformata dall’emozione. Per lui, parlare di David Sassoli non è semplice. In questi due anni e mezzo sono stati insieme l’apice della rappresentanza italiana in Europa. Una sintonia che raramente si riscontra in politica. Certo, entrambi provengono dal Partito Democratico. Ma la loro è amicizia ha una data lontana, prima della politica. «Io — ricorda il Commissario agli Affari economici — ho conosciuto David quaranta anni fa. Negli anni ‘80. Lui era un giornalista del Giorno e si occupava anche delle tematiche ambientali. Io ero il direttore di Nuova Ecologia , la rivista di Legambiente». Un rapporto che inevitabilmente si è consolidato e rafforzato a Bruxelles. «Noi ci definivamo degli espatriati», dice con un sorriso malinconico.
La memoria dell’ex premier, allora, va a dicembre scorso. Poco prima di Natale.
«L’avevo visto l’ultima volta proprio in quei giorni — rammenta — nel suo ufficio a Strasburgo. Era stato assente per oltre due mesi, in cura prima in Francia e poi in Italia per una brutta polmonite. Finalmente tornava nel suo Parlamento».
Quelli erano anche i giorni in cui si stava decidendo se il suo mandato alla presidenza del Parlamento europeo potesse proseguire oppure no. Il patto di inizio legislatura tra il Pse e il Ppe prevedeva una staffetta con un esponente popolare. «Abbiamo parlato della sua scelta di non ricandidarsi alla presidenza ». Perché optò per un passo indietro sebbene i Socialisti non fossero per nulla convinti di lasciare il passo al Ppe, soprattutto dopo la sconfitta subita in Germania? «Non voleva spaccare la maggioranza che lo aveva eletto nel 2019». La cosidetta “maggioranza Ursula” in effetti era diventata una delle bussole di Sassoli. «E non voleva perderla. Prese quella decisione non facile ma con la consueta serenità». Perché «lui era così: era sereno, una forza tranquilla. Sorridente. Con una risata contagiosa». «Ogni tanto — prosegue Gentiloni — lo andavo a trovare nel suo ufficio a Bruxelles. All’ingresso ti aspettava il cerimoniale del Parlamento. Da lui, invece, niente cerimonie: panini e chiacchiere sull’Italia. Da espatriati, ci dicevamo ridendo. Ma era la sua semplicità, la sua umanità. Nel 2013 fummo anche in competizione nelle primarie del centrosinistra per il sindaco di Roma. Perdemmo entrambi. Ma il ricordo di quella fase non faceva scattare alcun rimorso o risentimento. Semmai un bel pò di ironia».
La memoria, dunque, corre veloce dagli anni ‘80 fino alla nascita del Pd. Alla candidatura al Parlamento europeo che gli «venne proposta da Dario Franceschini». Da quel momento la sua passione si concentrò sul progetto europeista. Qual’è la sua più grande eredità? «La coerenza sui diritti e sulle libertà. E l’idea che la democrazia europea debba essere una democrazia dei cittadini. Senza la partecipazione dei cittadini, l’Europa è incompleta. Un messaggio fondamentale anche per l’Italia». Il commissario, però, sottolinea anche la sua capacità di interpretare il ruolo di presidente in modo efficiente. «Aveva un ottimo rapporto con la Commissione e con la von Der Leyen. E ha favorito la collaborazione sul Next Generation Eu e sul Green certificate. Decisioni prese dal Parlamento a tempo di record. Non una cosa ordinaria». Secondo Gentiloni, la radice del suo impegno e del suo pragmatismo va comunque ricondotta alla sua attività nel sociale. «La sinistra cattolica di Roma, gli scout, Sant’Egidio. È un filo che unisce tutti i momenti della sua vita». L’ex presidente del consiglio, sapeva che le condizioni di salute di Sassoli erano precarie. «Ci siamo scambiati gli auguri a capodanno. Poi l’ho cercato al telefono qualche giorno fa. Lui rispondeva sempre. Stavolta non ha risposto e ho capito». Anche nei mesi scorsi, «ha fatto lo slalom per tenere aperto il parlamento saltando qualche trasferta a Strasburgo. Questione difficile da gestire con i francesi e con alcuni gruppi. Ma lo faceva per ragioni di principio. C’è la pandemia, come si fa a chiudere il Parlamento? » . «Ora — è la speranza di Gentiloni — ai suoi colleghi in Parlamento e a tutti noi spetta il compito di tenere vivo il suo messaggio per una democrazia europea compiuta».
Claudio Tito per la Repubblica
BRUXELLES — «Ripeto a tutti che ho sempre fatto quel che dovevo. L’Europa e l’impegno per cambiarla è un dovere, soprattutto per noi italiani». Nella primavera scorsa, in una assolata mattina di domenica a Piazza Navona a Roma, David Sassoli parlava così del suo incarico al Parlamento europeo e della sua presidenza. Così concepiva il suo mandato in politica. Perché l’Europa era diventata la sua missione. Era qualcosa che andava oltre l’impegno politico. Era un innamoramento. Se ne è andato la notte scorsa ad Aviano, in Veneto, nel Centro di Riferimento Oncologico. A 65 anni. La sua guerra privatissima era cominciata da qualche anno. Con una leucemia che aveva battuto e superato. E poi le complicazioni degli ultimi mesi. Provocate da una infezione polmonare, la legionella. Che avevano causato un indebolimento strutturale del sistema immunitario. Era diventato presidente del Parlamento europeo 2 anni e mezzo fa. Il suo incarico sarebbe scaduto la prossima settimana.
Non era un professionista della politica. La prima parte della sua vita è stata dedicata al giornalismo. All’Agenzia Asca, poi al Giorno, al Tg3 e quindi al Tg1. Un “figlio d’arte”. Il padre era stato direttore del quotidiano Il Popolo. Dall’Asca riuscì a passare al giornale allora detenuto dall’Eni con uno scoop. In vacanza a Parigi incontrò Gianni De Michelis, in quel momento ministro del Lavoro, lì per vedere i cosiddetti rifugiati della dottrina Mitterand. L’esponente socialista aveva garantito a Oreste Scalzone l’amnistia. La sua Agenzia non scommise su quella notizia. Fu allora Famiglia Cristiana a pubblicarla. «Ci fu un terremoto », raccontava solo qualche mese fa rievocando la vicenda con un collega che come lui aveva lavorato all’Asca. «Pertini si infuriò ma nessuno potè smentire». Quindi il salto al Giorno e poi alla Rai. Prima al Tg3 (anche nelle trasmissioni di Michele Santoro) e poi al Tg1 del quale fu vicedirettore. Una vita da “mezzobusto”, le battute con Fiorello e i duetti con Nanni Moretti che ironizzò sull’uso della parola “osè” in riferimento ad alcune scene di un suo film. Nel 2009 il passaggio alla politica. Un’educazione calata nel cattolicesimo democratico. Negli Scout e nel volontariato. Lo storico Pietro Scoppola tra i suoi riferimenti. Gli ideali di La Pira. Era nato a Firenze (cresciuto a Roma, nei pressi di Piazza Navona) e tifoso della Fiorentina. L’amicizia con Dario Franceschini. E con Sergio Mattarella. L’esordio elettorale fu un boom: 400 mila preferenze e seggio a Strasburgo. Un record per un esordiente. «Ma lo sai che mi hanno votato un sacco di suore? ». Il cuore della sua attività politica è stata quindi in Europa. Si era messo in gioco nel 2013 nella corsa come sindaco di Roma. Partecipò alle primarie del centrosinistra e arrivò secondo dietro Ignazio Marino. L’anno dopo, però, si rifece: e venne rieletto più o meno con le stesse preferenze all’euroParlamento. Nel 2018, in occasione delle politiche, fu sondato da LeU dopo la scissione del Pd. Gli offrirono un seggio alla Camera. Il partito di Renzi non lo convinceva. Ma nemmeno gli scissionisti. Restò nei Dem e ricucì con l’allora segretario. Per la terza volta nel 2019 venne rieletto in Europa. Quando, appunto, fu scelto per presiedere l’aula. Era il candidato della cosiddetta maggioranza Ursula che ratificò anche la nomina di Ursula von Der Leyen. L’intesa tra Ppe, Pse e M5S. Sassoli aveva la capacità di intrattenere rapporti cordiali con tutti. Anche con i grillini dell’origine, antieuropeisti. Le telefonate con Beppe Grillo erano frequenti. Tutto merito di un episodio: un dibattito sull’Ue proprio con l’ex comico. Tutti lo sconsigliavano. Ma lui accettò. E ne uscì vincitore. Da quel momento il capo dei Pentastellati entrò nella sua agenda. E probabilmente grazie a quel confronto che riuscì a contribuire al traghettamento dell’M5S verso i lidi europeisti.
La sintonia con la presidente della Commissione, poi, in questi 30 mesi è stato una garanzia per il buon funzionamento delle Istituzioni europee. L’accordo del 2019 prevedeva la staffetta a metà mandato con un esponente del Ppe. I Socialisti europei avrebbero gradito la sua permanenza. «Quel che conta non è quel che farò io — ripeteva — perché io faccio quel che devo». Soprattutto non voleva spaccare quella “maggioranza Ursula” che sentiva sua.
Nel suo discorso di insediamento disse: «L’Europa non è un incidente della storia». In quella fase l’Ue avvertiva la pressione degli antieuropeisti. Quel che è avvenuto poco dopo fu una sorta di riscatto per l’Unione. «Vedi — spiegava alla vigilia dell’inaugurazione della Conferenza per l’Europa — noi dobbiamo provare a rendere questo Palazzo più rapido. Questo è il primo tentativo. Forse non sarà l’unico ma dobbiamo farlo ». Come spesso diceva di se stesso: «Io pianto e zappo».
A giugno scorso, poco prima dell’incontro con Papa Francesco, seduto davanti a un caffè nel bar del Parlamento di Strasburgo, confidava: «Non si tratta di un colloquio di routine. Con questo Pontefice non è mai di routine. Parlare di Europa con lui sarà tra le cose più importanti che mi siano mai accadute». Europa e cattolicesimo democratico, la sintesi della sua vita pubblica.
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Salvatore Merlo, Il Foglio
Allora è fatta, sei candidato sindaco di Roma!”. E lui, in un lampo ironico: “Ti ringrazio per la stima, ed è come se avessi accettato”. Era il 17 ottobre 2020, e c’era molto di David Sassoli in questa risposta, tra una sigaretta e l’altra fumate con accanimento: lo humour, il suo bonario e divertito distacco dalle cose, persino quelle un po’ spiacevoli. Perché in quel momento il segretario del Pd Nicola Zingaretti insisteva, e con lui anche Dario Franceschini. Volevano assolutamente candidarlo in Campidoglio dopo il disastro di Virginia Raggi. Tentavano di forzarlo. D’altra parte piaceva a tutti, Sassoli. Ai cardinali e pure alle suorine di cui era amico, agli ex comunisti e a quelli di Forza Italia, ai giornalisti di cui era stato collega e che sempre gli hanno garantito buona stampa. Piaceva pure a Beppe Grillo con il quale aveva stabilito una consuetudine fondata su qualcosa forse di più solido della politica: la simpatia istintiva, epidermica. Lo scherzo. D’altra parte un motivo ci sarà stato se questo giornalista cattolicissimo e di sinistra, amante della musica classica e della convivialità, il conduttore del Tg1 che in appena dieci anni s’era trasformato nel presidente del Parlamento europeo, era ormai diventato il candidato per ogni casella libera della Repubblica, persino quella definitiva del Quirinale, in un’Italia politica nel frattempo fattasi cupa e vaffanculeggiante. Lui era il contrario. Come cantava Zucchero “solo una sana e consapevole libidine / salva il giovane dallo stress e dall’Azione cattolica”. E Sassoli, amico sin da ragazzo del cardinale Zuppi che venerdì celebrerà i funerali, veniva sul serio dall’Azione cattolica, dallo scoutismo, dalle giovanili della Dc, da una famiglia numerosa intorno al padre giornalista del Popolo. Dunque oratorio e Vaticano, Aldo Moro, Piazza Navona e la Fondazione don Sturzo frequentata coi calzoni corti, e infine il giornalismo sempre cattolico e sempre politico – ma senza mai l’aria penitenziale, da quaresima o da venerdì santo. Ecco, appunto, la libidine di cui cantava Zucchero, che in Sassoli altro non era che un’iperbole per indicare la capacità di godere al massimo della vita sapendo trattare con leggerezza anche le cose più gravi. Era diventato presidente del Parlamento europeo per una carambola, non era il predestinato. E forse all’inizio ne era rimasto sorpreso lui stesso, che aveva anche tratti di vaporosità di cui era consapevole. Il mezzo busto fattosi presidente. Lui che però a luglio del 2019 – mentre l’Italia era ormai il paese delle fetecchie, guidato con una mano sola da Salvini & Di Maio, tra No euro, cigni neri e gilet gialli – seppe assumere quell’incarico col rigore richiesto dai tempi. Sempre legato a un’idea non retorica, non tenorile, ma nemmeno burocratica d’Europa. È stato un presidente interventista, Sassoli. E a un certo punto fu garante dei rapporti tra l’Italia e l’Europa. L’unico italiano, assieme a Sergio Mattarella, a ricoprire un ruolo di rilievo istituzionale mentre tra botti e petardi, minacce all’Unione, patti con la Cina e altre mattane, si consumava la credibilità dell’Italia di fronte ai suoi amici e alleati di sempre. Trasversale, amabile e bello come un attore del cinema, a sessantacinque anni Sassoli non mutava, forse si sciupava per via dell’età e della malattia che l’aveva offeso senza però trasformarlo, senza disfarlo, come un frutto che matura, ma conserva la propria forma originaria. È morto ieri mattina, e per un attimo, ricordandolo, il Parlamento ha smesso di accapigliarsi su Draghi e sul Quirinale.