Corriere della Sera, 11 gennaio 2022
Storia delle migrazioni
L’errore di Valente (328-378) fu quello di non capire che i Goti non erano solo dei guerrieri, bensì (e, forse, soprattutto) un popolo. Un popolo di migranti. L’imperatore romano pensò che, avendo dato al loro capo Fritigerno un aiuto determinante nella disputa in armi contro il rivale Atanarico, li avrebbe facilmente addomesticati. Perciò quando, incalzati dagli Unni, i Goti chiesero a Roma l’autorizzazione a traversare il Danubio e ad insediarsi pacificamente in Tracia, gliela concesse. Senza esitazione. Probabilmente – ipotizza Massimo Livi Bacci nell’affascinante Per terre e per mari. Quindici migrazioni dall’antichità ai nostri giorni in uscita dopodomani per il Mulino – Valente pensò che i Goti, oltre a «rinsanguare» l’esercito, si sarebbero resi utili, in condizioni servili, per la valorizzazione delle terre improduttive in cui era stato loro concesso di stabilirsi. Talché Valente inviò addirittura soccorsi e carri al fine di trasportare oltre il fiume quella che uno storico dell’epoca, Ammiano Marcellino, già individuò come una «feroce moltitudine di stranieri». Ad ogni evidenza, quello dell’imperatore si rivelò un errore di valutazione.
Gli emissari di Valente, ritenendo banalmente che quei barbari fossero già asserviti, trattarono poi il «popolo» di Fritigerno con eccessiva durezza. Sicché, scrive Livi Bacci, «quella che doveva essere una pacifica migrazione cambiò rapidamente di segno». I soccorsi promessi dall’imperatore non arrivarono o «furono intercettati da militari corrotti». E questo provocò i primi atti di ribellione. La benevolenza dell’imperatore si mutò come reazione in un «rigido divieto» per nuovi migranti Goti di varcare il Danubio. Ma loro «valicarono il fiume ugualmente». Esplose a questo punto un conflitto locale che si concluse con lo scontro armato di Marcianopoli (376). Vinsero i Goti. Più della metà dei 5 mila Romani guidati dal comandante Lupicino furono uccisi. Per ottenere vendetta, Lupicino si rivolse a Valente, il quale ritenne di dover impartire una lezione «definitiva» a quelle genti ingrate. L’imperatore rinviò una campagna contro i Persiani così da poter usare le truppe, già pronte, contro i migranti di Fritigerno. Respinse – fa notare Alessandro Barbero in Barbari (Laterza) – il tentativo di mediazione da parte di un prete inviato dal capo dei Goti (che era cristiano). L’ultima cosa che Valente pensava, scrive Barbero, «è che quella banda di straccioni costituisse un pericolo» e li sfidò con spavalderia in campo aperto, alla guida di un esercito tra i più forti dell’epoca. E fu la battaglia di Adrianopoli (378). Che si concluse con una nuova, sorprendente sconfitta dei Romani e con la morte dello stesso Valente. Ad Adrianopoli, intuì Ammiano Marcellino, si stava aprendo la strada che avrebbe portato «alla rovina dell’Impero romano». In effetti, concorda Livi Bacci, «si trattò della prima invasione di massa di barbari oltre il limes». Invasione, che, cento anni più tardi, si concluse con la caduta dell’impero. L’Impero d’Occidente. Dopodiché, trascorsi altri due secoli, anche il predominio dei Goti venne meno per l’arrivo dal Nord di un altro «popolo di migranti», i Longobardi.
La storia dell’umanità è fatta di sangue e migrazioni. Alcune spontanee, come quella di cui si è detto, altre forzate. Non tutti i migranti – scrisse Seneca esiliato in Corsica dall’imperatore Claudio nella Consolazione alla madre Elvia (contenuta nelle Opere edite da Giunti) – «ebbero i medesimi motivi per lasciare la loro patria e cercarsene un’altra». Alcuni «furono cacciati in terra altrui dallo sterminio della loro città, fuggirono soccombendo alle armi nemiche e privati di ogni loro cosa»; altri furono spinti all’espatrio «in seguito a sedizioni interne»; altri ancora «furono costretti ad andarsene per eccessiva densità di popolazione»; alcuni «dovettero fuggire una pestilenza, terremoti troppo frequenti o altri insopportabili difetti di un territorio infelice»; ci fu chi «si lasciò illudere dalla nomea di una contrada fertile, decantata come migliore» della propria. Il peregrinare del genere umano, constatava Seneca, è «ininterrotto». E anche oggi che sono trascorsi duemila anni, i fenomeni migratori si sviluppano, sostiene Livi Bacci, «con meccanismi e modalità diversi nella forma, ma simili nella sostanza» a quelli descritti dal filosofo che fu precettore di Nerone.
In epoca moderna per prima ad essere sconvolta da fenomeni migratori decisi dall’alto fu l’America ispanica nel corso del Cinquecento. Chi decise quegli spostamenti lo fece con tre finalità, spiega Livi Bacci: una politica, «di miglior controllo di una popolazione tradizionalmente abituata a vivere dispersa su enormi e spesso impervie estensioni»; la seconda di natura religiosa, «per assicurare la conversione e l’indottrinamento»; la terza economica, «relativa sia all’individuazione dei tributari che alla raccolta dei tributi». Ce ne fu poi una quarta dopo la scoperta nel 1545 delle ricchissime miniere di argento di Potosí (che nel volgere di un cinquantennio divenne una delle città più popolose e più ricche dell’emisfero occidentale, superata solo da Londra e Parigi). Per lo sfruttamento di quelle miniere il viceré Toledo escogitò un sistema di reclutamento che coinvolgeva circa quattordicimila indios «importati» (per un tempo di dodici mesi ogni sette anni) da centoventicinque comunità sparse in una fascia dell’altopiano del Perù lunga 1.400 chilometri e larga 400. Un sistema che resterà in vita per due secoli e mezzo finché non verrà abolito da Simón Bolívar nel 1825.
Anche l’Europa, dopo quelli conosciuti all’epoca delle guerre di religione, sperimentò nuovi fenomeni migratori. Particolare fu il caso del Drang nach Osten, la spinta verso Est, cioè l’espansione tedesca oltre l’Elba che pure affondava le sue radici nell’Alto Medioevo. Dopo la guerra dei Trent’anni (1618-1648), spiega Livi Bacci, si sviluppò gradualmente una migrazione organizzata e finanziata da principi, vescovi, ordini religiosi, fatta di contadini tedeschi che si spostavano oltre i confini orientali. Movimento incoraggiato da Caterina di Russia che, negli anni Sessanta del Settecento, finanziò l’insediamento dei coloni fornendoli di attrezzi, bestiame, sementi e concedendo vasti appezzamenti di terreno in proprietà. Fu un esperimento riuscito che si protrasse per decenni. Gli immigrati tedeschi, racconta Clifford T. Smith in Geografia storica d’Europa (Laterza), erano provvisti dell’aratro pesante a ruote con coltro e vomere, avevano grosse scuri con cui disboscare foreste assai impegnative e dissodare, per messa a coltura, terreni tra i più pesanti. Una migrazione «di successo». Fino a un certo punto però, dal momento che, nel Novecento, una deformazione del Drang nach Osten andò a infrangersi nelle teorizzazioni che dell’allargamento a Est volle dare il Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler.
Drammatiche furono anche le migrazioni provocate dalla crisi dell’Impero ottomano che si protrasse lungo il decennio che va dal 1912 (prima guerra balcanica) al 1922 (esilio dell’ultimo sultano, Mehmet VI). Passando per la Prima guerra mondiale e avendo come culmine il dramma tutto particolare consumatosi nel 1915, a cui Marcello Flores ha dedicato il documentatissimo libro Il genocidio degli armeni (il Mulino). Genocidio per il quale stime che Livi Bacci considera «conservatrici» ci dicono che perirono tra le seicentomila e il milione di persone, tutte massacrate o lasciate morire lungo le marce di trasferimento. Gli armeni – come fece osservare Franz Werfel in I quaranta giorni del Mussa Dagh (Mondadori) – ebbero la sventura di «cadere in mano al nemico più terribile» che si possa incontrare in una guerra, quello che non è tenuto «per ragioni di reciprocità» a «rispettare il diritto dei popoli», cioè il loro stesso Stato, libero dal genere di vincoli cui si è testé accennato. Poco tempo dopo, fu l’Unione Sovietica staliniana a provocare uno tra i più giganteschi spostamenti forzati di popolazioni. Si deve ad Aleksandr Solženitsyn – in particolare alla sua opera Arcipelago Gulag (Mondadori) – la descrizione minuta delle condizioni in cui avvennero gli spostamenti di popoli nell’Urss. Sradicare milioni di persone, contro la loro volontà, dai loro storici insediamenti implicava, secondo Livi Bacci, tre condizioni. La prima era «l’esistenza di una precisa volontà politica che, pur tra contraddizioni e retromarce, certo non mancò al regime sovietico». La seconda era «che questa volontà potesse essere tradotta in azioni e in fatti, senza provocare disordini, caos e conflitti incontrollati». La terza, «che esistesse un sistema logistico adeguato agli spostamenti di massa».
Nel periodo 1926-1939 la Russia europea ebbe una perdita per emigrazione netta pari a 5,4 milioni di persone (il Kazakistan di quasi un milione). Ebbero invece una immigrazione netta di 6,4 milioni l’area transcaucasica (1,4 milioni), la regione degli Urali, la Baschiria, la Siberia e l’Estremo Oriente (3,3 milioni) più l’Asia centrale (1,7 milioni). Nel giugno del 1941 con l’invasione tedesca «si moltiplicarono le deportazioni di quei gruppi etnici che si sospettava potessero avere intese con gli aggressori, o che vivevano in territori occupati dai tedeschi che avanzavano e magari avevano collaborato con loro, spesso solo per sopravvivere». Caratteristiche comuni di queste deportazioni furono l’assenza o quasi di preavviso; la lunghezza dei viaggi in treno; il pessimo trattamento alimentare, di igiene e di sicurezza durante e dopo il viaggio; l’inserimento in campi di lavoro e in «insediamenti speciali» con durissime condizioni di vita; l’assenza di infrastrutture elementari; le condizioni climatiche estreme. Infine, raggiunta la meta, un’altissima mortalità nei primi due anni di «nuova vita». Mortalità che alcune valutazioni («non è dato sapere quanto fondate», mette le mani avanti Livi Bacci) danno nell’ordine del 20 per cento. Solo dopo il XX Congresso del Pcus (1956), nel quale Krusciov denunciò i «crimini di Stalin», venne concesso a parte dei deportati di tornare nelle loro patrie.
A volte gli spostamenti di popolazione sono stati provocati da «misfatti della natura». Esemplare il caso della Grande Seca brasiliana negli anni Settanta dell’Ottocento. O del Dust Bowl (conca di polvere) che sconvolse le pianure nordamericane negli anni Trenta del Novecento. Le condizioni di partenza della Grande Seca e del Dust Bowl erano non paragonabili (un’agricoltura primitiva quella brasiliana, una moderna e fortemente meccanizzata quella statunitense). Ma analoghi furono i flussi migratori che seguirono a quelle due spaventose siccità. In ambedue i casi, osserva Livi Bacci, si aveva a che fare con popolazioni estremamente sparse, di recente insediamento le cui istituzioni, tecniche e modalità di vita non si erano adattate alle circostanze ambientali. Ma a volte anche l’adattamento non è sufficiente. Quando il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy visitò nel 1963 l’Irlanda (da cui provenivano i suoi avi) l’isola contava la metà degli otto milioni e mezzo di abitanti che aveva nel 1845 alla vigilia della «Grande Fame» provocata dalla peronospora della patata, un microrganismo che per cinque anni distrusse i raccolti dell’indispensabile alimento. Gli altri, quelli che non morirono, erano stati costretti ad emigrare.
Talché forse l’unico fenomeno migratorio «di successo» può essere considerato quello che è all’origine delle fortune del continente nordamericano. Anche se quest’«onda» di «migrazioni libere», spiega Livi Bacci, «non può essere facilmente costretta in un semplice modello, perché via via che avanzava cambiavano la geografia dei territori, la composizione dei migranti, le tecniche disponibili e perfino le politiche in atto, anche se generalmente favorevoli all’espansione verso ovest». E non può essere considerato un successo il fatto che la «libertà dei migranti» significò «la perdita di libertà per le deboli popolazioni autoctone: i sopravvissuti agli impari conflitti furono costretti a migrazioni forzate verso le aree designate dai vincitori e a un rovesciamento dei loro secolari stili di vita». Un fenomeno destinato in parte a riprodursi allorché i migranti della prima ora furono soppiantati talvolta con brutalità da quelli della seconda, della terza, della quarta e della quinta ondata.