Corriere della Sera, 11 gennaio 2022
Tutti i guai di Novak Djokovic
Gli urletti di Sharapova, l’impulso di frugare nel retro dei calzoncini di Nadal, l’andatura ciondolante di Murray, all’epoca uno dei Big Three del tennis. Avremmo dovuto capire dall’inizio, dal km zero dei tornanti lungo i quali Novak Djokovic ha saputo risalire un destino già scritto agganciando i due sodali in fuga, Federer e Nadal, alla stratosferica quota di 20 titoli Slam, che il Djoker aveva un’irresistibile propensione per i guai e i giudizi spietati.
Le imitazioni hanno funzionato il tempo di farsi notare, strappare qualche sorriso in tribuna, stop. Poi un gigante del tennis non ancora ufficialmente in pensione ha preso da parte Djokovic in spogliatoio: un bel gioco dura poco, ragazzo. E a quel punto, intelligentemente, per fare strada l’ex bambino serbo cresciuto allenandosi sul fondo di una piscina vuota di Belgrado sotto i bombardamenti della Nato si è aggrappato al suo talento migliore: la resilienza controcorrente. Risorgere quando tutti sperano di vederti tramontare, vedi la finale di Wimbledon 2019: Freud ci è andato a nozze.
Ma anche lì, al centro della sua nicchia ecologica, non sono mancati incidenti di percorso. Al netto della quota di tifosi di Federer e Nadal che ancora oggi non gli perdonano di essersi intromesso, terzo geniale incomodo, nella rivalità sportiva del millennio, a lungo Djokovic ha avuto nel circuito la fama di quello che enfatizzava gli infortuni, chiamando il medical time out per spezzare l’inerzia all’avversario. All’Open Usa 2008 (anno del primo Major), Djokovic ne invoca due nei cinque ruggenti set con cui batte lo spagnolo Robredo. Il suo avversario nei quarti, Andy Roddick, reagisce con ironia («Ci mancava solo che dicesse che ha l’aviaria e la Sars!»), poi i sospetti si susseguono. Carreno Busta al Roland Garros 2020 («Ogni volta che il match si complica, vuole il dottore»), Fritz in Australia l’anno scorso, quando Djokovic accusa un infortunio agli addominali, minaccia il ritiro e poi conquista il torneo (nono Australian Open).
Se le teorie no vax di Djokovic sono note, spesso a esporlo alle critiche sono stati i modi e i luoghi in cui le ha espresse. Ha dell’incredibile che il n.1 non si sia reso conto che parlare del potere di trasformazione delle molecole dell’acqua con la forza del pensiero in diretta social e in piena pandemia con Chervin Jafarieh, sedicente guru del benessere, fosse inopportuno. E che annunciare il suo viaggio in Australia su Instagram, sette giorni fa, con un garrulo messaggio («Buon anno a tutti! Sono diretto down under con un’esenzione») senza fornire spiegazioni sulla natura e il motivo dell’exemption avrebbe potuto irritare – come poi è successo – l’opinione pubblica di un continente blindato dentro i propri confini dalle politiche anti Covid di un governo in campagna elettorale, che ha usato il narcisismo di un fuoriclasse come voto di scambio. Un vero leader spiega, chiarisce, si rende trasparente anziché approfittare di scorciatoie impopolari (un torneo riservato ai soli vaccinati avrebbe tagliato fuori Djokovic e uno Slam senza il migliore è meno appetibile per tutti). L’ultima enorme controversia che ha coinvolto e travolto Novak Djokovic prima di questo orribile pasticcio con la dogana di Melbourne era stato il cartellino rosso all’Open Usa 2020 per la pallata alla giudice di linea. Squalifica immediata, episodio sfortunato, certo, ancora una volta (un caso?) con al centro lui, il peggior nemico di se stesso.
C’è sempre un «se» nella vita di ogni uomo. Se il Djoker considerasse tutte le controversie in cui si è infilato come un’occasione di crescita, anziché come ingiustizie che rafforzano la sua convinzione di essere in missione per conto di Io, non sarebbe Djokovic, l’uomo dei 20 Slam con la freccia lampeggiante per il sorpasso. Generoso e arrogante, talentuoso ed egocentrico, adorabile e odioso, indistruttibile e friabile, tutto o niente. Si crede Dio in terra e invece è molto (forse troppo, per lui, da accettare) umano.