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 2022  gennaio 11 Martedì calendario

Le lettere di William Burroughs

La Beat generation? Qualcosa da dimenticare. Jack Kerouac? «Un povero alcolista dipendente dalla madre». Allen Ginsberg? «Il mio spacciatore di mescalina». Gregory Corso? «Uno schifoso». Herbert Huncke? «Un drogato e un ladro che quando scrive sembra un corvo che gracchia». Truman Capote? «Dopo A Sangue freddo uno scrittore finito e al servizio del Governo». Arthur Rimbaud? «Niente di oscuro nella sua poesia se la vedi come immagini». I movimenti rivoluzionari americani come le Black Panthers? «Faccio più io con la macchina da scrivere che loro con le Beretta 25». L’unica soluzione per governare gli Stati Uniti? «Il controllo delle masse».
Sono solo alcuni dei giudizi che ritroviamo nelle lettere dello scrittore americano William Burroughs, uno dei grandi più vicini alla Beat generation, autore di capolavori come Pasto nudo, La scimmia sulla schiena e Strade morte (tra i tanti), sceneggiatore di film mai usciti, pecora nera di una famiglia benestante, morto a 93 anni nel 1997 dopo una vita spesa tra sperimentazione di ogni droga possibile e incubi che l’hanno ossessionato tutta l’esistenza come l’avere ucciso la moglie nel tentativo di imitare Guglielmo Tell. Autore di diciotto romanzi, non ha mai lavorato in vita sua, è stato sempre mantenuto dalla famiglia, dal padre prima e dalla madre poi: l’unica che non abbia subito il fascino del figlio ma, anzi, pur spedendogli denaro per vivere in una lettera gli aveva dato del «teppista», invitandolo a «non tornare mai a casa». Laureato in antropologia, ha vissuto tra New York (dove è stato arrestato e poi internato in un ospedale psichiatrico), il Texas (dove coltivava marijuana), il Messico, la Colombia, Tangeri dove viveva seguendo il motto «Niente è vero. Tutto è permesso». Nel 1958 si è trasferito a Parigi dove ha abitato per anni nella stessa camera in un hotel, presto diventato meta di pellegrinaggio dei suoi lettori, perché Burroughs sino alla morte è stato visto come una rockstar, il «Grande vecchio» della controcultura. Precursore della letteratura postmoderna, ha influenzato moltissimo la musica: l’heavy metal è nato prendendo a prestito una sua definizione e tra i suoi lettori più accaniti figurano Frank Zappa, Iggy Pop, David Bowie, Rolling Stones, R.E.M., U2 e Kurt Cobain.
Da giovedì arriva nelle librerie Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973 (Adelphi, pagg. 358, euro 24; a cura di Oliver Harris e Bill Morgan, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Andrew Tanzi). Un’antologia epistolare – versione ridotta dai due volumi americani, il primo introvabile da anni, con il titolo Rub Out the Words – che rivela tutto l’universo personale di William Burroughs: capace di slanci di generosità con dei perfetti estranei, come pronto a litigare con qualunque amico, a dimenticare per anni di essere padre, come di stroncare qualsiasi scrittore. Non perché fosse un bastian contrario o un tossicodipendente: Burroughs è molto molto lucido nelle proprie analisi (anche le più assurde) e scrive le lettere come ha scritto i suoi libri, con molta meticolosità, ossessionato dalla perfezione della prosa e dalla catalogazione di ogni suo scritto; tanto che la maggior parte delle lettere possono essere pubblicate perché di ciascuna inviata ne custodiva una copia con la carta carbone. La prima parte dell’epistolario è più interessante, meglio curata, esattamente come l’edizione americana che nella seconda parte risente degli errori del curatore Bill Morgan: nomi e date sbagliati, censura a interi passaggi nei quali Burroughs si confronta con il dottor Dent, che ricorre molto spesso nell’epistolario. Il principale nemico nella vita di Burroughs era l’influenza debilitante dei narcotici. Ciò che lo rendeva felice era il lavoro, in particolare il lavoro collaborativo, e l’eroina andava contro la soddisfazione di una giornata alla scrivania, penna in una mano, lama di rasoio per tagli nell’altra. In lettere inviate alla stampa, ad altri medici e a compagni tossicodipendenti, sottolinea che l’apomorfina «non funziona placando l’ansia ma regolando il metabolismo in modo che il paziente non abbia bisogno di alcol o narcotici». Che le autorità ignorassero il rimedio di Dent non era una sorpresa: dopo tutto, come disse Burroughs in The Job, una raccolta di interviste pubblicata nel 1969, «i medici hanno un interesse acquisito nella malattia».
Burroughs non le mandava a dire. Truman Capote nel 1967 dichiarò al Chicago Daily News: «Odio a morte William Burroughs. Lui è quello che chiamerei uno scrittore pop. Ottiene alcuni effetti molto interessanti su una pagina. Ma al costo di una totale mancanza di comunicazione con il lettore. Il che è un costo piuttosto serio, credo». Non si fece aspettare la risposta di Burroughs: «Hai messo i tuoi servizi a disposizione degli interessi che stanno trasformando l’America in uno stato di polizia con il semplice espediente di favorire deliberatamente le condizioni che danno origine alla criminalità per poi chiedere maggiori poteri di polizia e il mantenimento della pena capitale per affrontare la situazione che hanno creato. Hai tradito e venduto il tuo talento. Non scriverai mai più una frase al di sopra del livello di A sangue freddo. Come scrittore sei finito. Passo e chiudo. Mi stai seguendo? Sai chi sono? Tu mi conosci, Truman. Mi conosci da molto tempo. Questa è la mia ultima visita». Per Burroughs, al posto della pena di morte, «l’arma da usare è il controllo di massa delle onde cerebrali. 400.000 cervelli che emettono onde alfa nel sonno e se fanno sogni superficiali, spazziamoli via con 400.000 onde epilettiche».
Nel 1972 scrive: «L’Inghilterra è una cupa e fredda nave che affonda senza luce e che scomparirà con una tosse spettrale». Burroughs ha anticipato il Covid? Senz’altro è una suggestione, ma è certo che diverse volte ha intravisto il nostro presente: come nella sceneggiatura Blade Runner (dalla quale Ridley Scott trarrà il titolo per l’omonimo film ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), in cui immagina una società alla mercé delle grandi aziende farmaceutiche e il pericolo di una dittatura sanitaria.