Linkiesta, 11 gennaio 2022
Ettore Sottsass e la chiusura degli scatoloni sonciniani
Ho cominciato il 2022 esattamente come avevo finito il 2021: scavalcando scatoloni. Ho cominciato il 2022 esattamente come avevo finito il 2021: ripromettendomi che questa volta li disferò prima che il trasloco compia quattordici anni, che ora chiamo l’omino che deve mettere gli scaffali, che ora riordino e butto, butto e riordino.
Ho cominciato il 2022 esattamente come avevo finito il 2021: esitando nel buttare due copie dello stesso Arbasino, probabilmente comprate nell’entusiasmo dei saldi annuali Adelphi, quando li vedo al 25 per cento divento Totò che dice «ma sì, abbondiamo».
Ho cominciato il 2022 esattamente come avevo finito il 2021: leggendo il libro più bello degli ultimi tempi, che avevo già capito mi sarebbe piaciuto tantissimo ancora prima di aprirlo, avevo già capito mi sarebbe piaciuto tantissimo già dal titolo; titolo che pure, leggendo il libro, ho scoperto di non aver minimamente capito di che cosa parlasse.
“Di chi sono le case vuote?” è una raccolta di scritti di Ettore Sottsass che ero convinta parlasse della mia fissazione: chi ci sarà dopo di te, si prenderà il tuo armadio (fissazione mia e di Baglioni). Chi c’è dopo di me nelle case in cui ho abitato io? Nella casa in cui sono stata piccola a Bologna c’è ancora la carta da parati bianca e verde, in corridoio, e ci sono segnate le altezze di quando ancora crescevo in lunghezza? Nella casa di via dell’Anima a Roma c’è qualcuno più intelligente di me che abbia messo un tavolo da pranzo in quella veranda stupendissima che io avevo sprecato mettendoci gli armadi? Nella casa di Monteverde c’è qualcuno che abbia familiarità col cianuro e l’abbia usato per liberarsi del bambino che giocava a pallone al piano di sopra, o almeno dei suoi cafonissimi genitori? Nella casa di via dei Chiavari c’è qualcuno che sia più gentile di quanto lo fossi io coi fidanzati gentili che la mattina ti portano su i cornetti di Roscioli?
Ci vorrebbe un diritto perpetuo di visita alle case nelle quali hai abitato, tenetevi pure il diritto di restare amici degli ex fidanzati, di quello posso fare a meno (me li sono sempre scelti accuratamente antipaticissimi), ma le case dopo un po’ ti mancano con lo struggimento che evocano solo le cose che non rivorresti indietro ma vorresti restassero tue per sempre. Conservo certi film doppiati in vhs, e non posso tornare a vedere la camera da letto in cui copulavo con un cretino nel 1996? Ma perché, non è logico, non ha senso.
E poi ho scoperto che Sottsass non parlava mica di quello. Parlava d’una mia fissazione (un’altra: sono piena di fissazioni). Chi è che riesce a non avere scatoloni da scavalcare, casse di acqua tonica ormai sgassata, vestiti che non metterà mai più, libri impolverati che tanto quando devi consultarli non li trovi?
Chi è quella «gente tanto privilegiata, tanto padrona delle condizioni esterne e di sé, da poter essere (o sembrare) povera per autodecisione»? Quelli che quando vai a casa loro da bere hanno solo acqua. Quelli che ti dicono «che disordine» dopo che hai messo a posto una settimana, ed è perché casa loro è inevitabilmente ordinata perché a casa loro non c’è carta, se ci sono mille libri è tanto, non ci sono giornali, non ci sono bollette del 1998 che non butti perché metti che ti venga lo sghiribizzo di ricordarti che numero di telefono avevi quell’anno, non ci sono biglietti di concerti ai quali giureresti di non essere andata se non ci fossero i biglietti a ricordartelo, non ci sono lettere d’insulti su fogli di quaderno a quadretti di quello cui facesti le corna a tredici anni, non ci sono pagine strappate del Portfolio della Rodotà sull’Espresso e caricabatterie di telefoni di quando chiamare dal cellulare costava duemila lire al minuto, non ci sono campioncini di creme che non userai mai ma non si sa mai e bottiglie di vino cattivo che non berresti mai ma metti che vengano ospiti.
Non è neanche questione di povertà, la vuotezza, Sottsass lo spiega bene, le case dei poveri sono piccole, «lo spazio è così corto» che si riempiono subito, e allora da cosa dipende. Forse giusto i terroristi, dice lui, cioè lui li chiama rivoluzionari ma insomma il concetto è quello, quelli che un domani potrebbero dover fuggire e non lasciare tracce, non possono permettersi il lusso di far impolverare ricordi.
Ero lì che scavalcavo scatoloni e mi chiedevo come facesse a sapere tutte quelle cose di me, anche il mio dramma delle giornate corte, «viene quella luce che non si sa bene, quella lenta luce di morte», io non so perché non si faccia una legge per rendere obbligatorio il letargo da ottobre a marzo, chiamiamolo lodo Sottsass, davvero, la luce di morte alle quattro non si può, io non ce la faccio, non possiamo come provvedimento pandemico fermare il mondo quando s’accorciano le giornate?
Altrimenti procuratemi un’intervistatrice, vorrei dirle quel che disse Sottsass a una tapina nel 1977, «sono solo e debole e tutti i miei amici sono soli e deboli e se lei vuole può senz’altro scrivere che siamo tutti ossessionati da complessi, che non siamo ancora cresciuti, che siamo tutti impotenti, negativi, non interessati, non impegnati e tutto quello che vuole e può anche concludere che siamo solo intellettuali borghesi, isterici, tristi e tutto quello che vuole, ma per favore scriva che non siamo pericolosi, che non rappresentiamo nessun pericolo per l’edificazione monumentale e positiva della maledetta felicità pubblica generale. Va bene? Per favore», e poi tornare a letto fino a primavera.