La Stampa, 11 gennaio 2022
Le manovre pericolose per il Quirinale
Nella corsa verso il Quirinale si fronteggiano due tendenze, che rimandano a due tipologie di candidati. La prima popolata di soggetti “nascosti”, nel curioso timore di essere scoperti; l’altra, esibita platealmente, riconducibile al candidato Silvio Berlusconi. Bollato come “divisivo”, non lo è a priori più degli ultimi candidati eletti: tutti schierati politicamente, e poi riconosciuti come i presidenti dell’intero Paese. Fino a sfociare nell’affetto palpabile che gli italiani dimostrano nei confronti del presidente ancora in carica.
Il giudizio su un ipotetico settennato berlusconiano suggerisce di deporre l’ascia dell’avversione politica, che riverbera la stessa accusa su chi la impugna. E di rifuggire dal gesto estremo di un nuovo Aventino, a quasi un secolo dal precedente. Assodata la legittimità giuridica della candidatura, al momento non contestata, l’indagine si sposta sulla compatibilità del candidato con i nostri principi costituzionali. A partire da una considerazione inoppugnabile: il ridotto armamentario costituzionale del nostro capo dello Stato diventa «fisarmonica» (cit. Amato), durante il ventennio dei governi di centrodestra, per la vivace indisciplina costituzionale del capo di quei governi.
Basta ripartire dal primo atto di sfida, diretto a raschiare le prerogative del capo dello Stato nel procedimento di formazione dei governi: proprio l’indicazione sulla scheda elettorale del candidato alla guida del governo. A un certo punto, addirittura per legge. Poi, nella formazione del primo governo Berlusconi, la provocatoria indicazione di un improponibile Cesare Previti quale guardasigilli. Più che una sfida. Più avanti, ponendo a capo delle commissioni giustizia delle camere, con il compito di riscrivere le leggi in materia, i propri legali nella forsennata contesa giudiziaria di quegli anni (e non solo). Conflitti di interessi, sovrapposizioni di poteri inauditi, fino ad allora. Ancora? Trasformando il più notarile degli atti presidenziali, la promulgazione delle leggi, nell’ineluttabile schiaffo di rinvii alle camere di leggi ad personam.
Più avanti il Cavaliere in persona, nel frattempo autonominatosi vessillo di un garantismo costituzionale autoprotettivo, come scudo denunciava formalmente alla procura competente le frequentazioni tra esponenti della coalizione avversaria e portatori di interessi finanziari ed economici. Un primato di giustizialismo aggressivo. Sono appena gli inizi di un ricco capitolo, ricco di contrasti e provocazioni istituzionali, diretti a trasferire la centralità dal parlamento al governo.
Lo interrompiamo qui, per fare spazio ad un tema addirittura più inquietante, per la stessa dignità della nostra democrazia. Senza enfasi, per la sua tenuta. Tema che occhieggia qua e là, quasi incidentalmente. Il tema della circolazione, libera o stimolata, di grandi elettori dalle posizioni originarie, applicata al momento supremo dell’elezione del capo dello Stato. Del garante della Costituzione. Un’ipotesi da brividi. È trascorso un decennio abbondante dal voto con cui la Camera ha confermato la fiducia ad un governo che pareva destinato a cadere. Un voto assai distante da quello precedente, l’approvazione della legge finanziaria del 2011. Un mistero ancora fitto, su una tempistica concordata tra i presidenti delle camere e il capo dello Stato del tempo. È necessario che il campo venga sgombrato dal sospetto, anche l’ombra, che l’elezione del capo dello Stato possa essere inquinata da torbide manovre. L’appello a vigilare, senza esitazioni, va rivolto a chiunque abbia un titolo per farlo. Politica, informazione ed altro, ricorrendone gli estremi