la Repubblica, 11 gennaio 2022
Intervista a Emma Dante
Macché francesi, gli invasori della Sicilia sono i mafiosi e la rivolta dei Vespri è una metafora del dopo-stragi ’92. Nelle mani di Emma Dante I vespri siciliani di Verdi, l’opera che il 20 gennaio inaugura la stagione del Teatro Massimo di Palermo nella versione francese (in diretta streaming su Arte.tv/it), diventa una contrapposizione tra oppressori-boss e siciliani inerti in una sfida tra tarantella e break-dance: saranno, insomma, i Vespri dell’antimafia tanto che a un certo punto in una piazza palermitana ricostruita dallo scenografo Carmine Maringola sfileranno i gonfaloni con i ritratti di Giovanni Falcone, Boris Giuliano, Pippo Fava e altre vittime illustri di Cosa nostra.
Quando il Massimo le ha proposto la regia di un’opera ambientata nella sua Palermo, cosa le è scattato nella mente?
«Quando ho cominciato a studiarla mi sono resa conto che è l’opera più difficile che abbia fatto finora: è un’opera immensa, esageratamente imponente dal punto di vista drammaturgico, una “grand soap opera” come la chiamo io. Ci sono tanti livelli che per una palermitana come me sono un invito a nozze: l’amore paterno, la passione, la Sicilia, la tradizione, l’atteggiamento mafioso, l’abuso, la prevaricazione. È un’opera estremamente violenta».
Più violenta di “Macbeth”, che lei mise in scena nel 2018 sempre al Massimo?
«Sì. Monforte, il governatore francese, è un grande boss che tiene tutto il popolo al laccio, è un sovrano del Male come lo sono i boss che hanno tenuto per anni indisturbati le redini della mafia, i latitanti che hanno fatto le loro vite sino alla fine.
Questo racconta Vespri, questo tipo di oppressione che ha a che fare con l’opinione pubblica: gli oppressori di Vespri ti rubano tutto, pure l’acqua, e controllano ogni cosa. I siciliani, invece, sono l’anima fragile della Sicilia, sono indolenti, pavidi, un po’ omertosi, hanno dentro il grande fuoco della giustizia però sono rimasti sedati per troppo tempo. E l’ouverture, una musica bellissima, racconta molto bene lo spirito di un popolo che cova vendetta ma non ce la fa a ribellarsi».
Allora ci dica cosa ha ideato per l’ouverture.
«Ho pensato a un’immagine fortissima: Strehler in Cavalleria rusticana faceva scendere il sipario tagliafuoco sopra un carretto siciliano spaccandolo in due. Lui così raccontò la morte della tradizione siciliana».
E lei invece?
«Partendo da questa suggestione ho ripensato a quando vidi in una bottega tre pupi completamente arrugginiti. Vespri per me significa questo: gli oppressori si prendono la tradizione del popolo e la fanno deteriorare, la buttano via. E allora prima dell’ingresso del direttore d’orchestra si apre leggermente il sipario e un oppressore scarica sul proscenio alcuni attori vestiti da pupi arrugginiti, e lì parte l’ouverture: il teatro che vomita la sua tradizione, pupi inerti che a poco a poco si rianimano in una piazza».
La scintilla che accese la rivolta fu la molestia di un soldato francese a una donna siciliana. Questo episodio quanto ha pungolato la sua sensibilità?
«Questo arriva nel secondo atto ed è un momento terribile: le spose felici danzano con i loro mariti, gli oppressori si eccitano guardandole e le rapiscono caricandosele sulle spalle come fossero dei sacchi di rifiuti. Le spose si dimenano, i mariti sono impotenti sotto il tiro della pistola, e gli oppressori chiuderanno le donne dentro una sorta di grande sacco per l’immondizia».
La processione con i ritratti delle vittime di mafia vuole ribadire che in Sicilia resiste un forte sentimento antimafia?
«Con quella scena ho voluto dire che noi siamo figli di questi martiri.
Helene che piange il fratello morto ammazzato non può che farmi pensare a Rita Borsellino. Così quando l’oppressore obbliga Helene a cantare ci sarà una marcia della memoria con gli stendardi che richiama le tante fiaccolate antimafia: il coro di Vespri siamo noi siciliani che abbiamo fatto i lenzuoli bianchi della protesta dopo le stragi, noi che a un certo punto ci siamo svegliati e abbiamo riempito le strade con i nostri “no”. L’idea di fare una parata in un’opera ambientata a Palermo mi sembrava il minimo: questi ritratti ci colpiranno il cuore».
La lirica è diventata importante nel suo percorso e lei si diverte a smontare le opere: è così?
«Mi sembra una macchina che permette di fare grandi cose. Mi piace smontare i cliché ma Bohème, per esempio, è rimasta fedele a sé stessa: sono solo uscita dalla mansarda cambiando il punto di vista».
C’è un nuovo spettacolo in cantiere?
«Sto pensando di completare la trilogia di Basile dopo Scortecata e
Pupo di zucchero con un’altra fiaba e vorrei metterle in scena tutte e tre a Parigi».