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 2022  gennaio 10 Lunedì calendario

L’INDAGINE DELLA PROCURA DI ROMA SUI PREPENSIONAMENTI A “GEDI” TOGLIE IL VELO A UN VIZIETTO CHE HANNO TUTTI I GIORNALI ITALIANI: I COLLEGHI ANZIANI ESCONO CON RICCHI SCIVOLI A SPESE DELL’INPGI A 55-56 ANNI, SALVO POI RIENTRARE DALLA FINESTRA COME COLLABORATORI. IL TUTTO A DANNO DEI GIORNALISTI PIÙ GIOVANI - I SINDACATI SAPEVANO TUTTO. ANZI: STAVANO CON I VERTICI DEL GRUPPO - IL RUOLO DI GIANNI DOTTA, EX UOMO DI AGNELLI, E LA BOMBA “KATAWEB” NEI CONTI DEL GRUPPO EDITORIALE… -

Cominciano a saltare fuori i primi nomi di chi risulta coinvolto nelle attività investigative sui prepensionamenti con demansionamento messi a punto dal gruppo Gedi. Tra questi ci sono personaggi di primo piano dell'azienda un tempo guidata dalla famiglia De Benedetti.

Gianni Dotta, per esempio, un tempo vicinissimo all'avvocato Gianni Agnelli: una vita trascorsa nel mondo dei giornali come manager. La Stampa, Il Secolo XIX, Il Tirreno e poi il gruppo editoriale L'Espresso. Sul sito web della Nexto, associazione che si occupa dello sviluppo sociale ed economico di Torino, si presenta come «consulente in ambito gestionale, organizzativo e della comunicazione».

Ma anche come «curioso della vita e del mondo, insaziabile lettore» e, infine, «velista». In foto si mostra in una posa da vero manager d'altri tempi, giacca scura e cravatta. Su Linkedin, invece, elenca le sue esperienze professionali che abbracciano un arco temporale che va dal 1978, quando era addetto alle relazioni sindacali della Fiat (probabilmente non un caso in questa storia), al 2013, quando è arrivato a ricoprire il ruolo da consigliere delegato del quotidiano Il Tirreno e altri incarichi nelle società del gruppo Espresso.

Contattato dalla Verità, dice subito di non aver ricevuto nulla che riguarda l'inchiesta. E se in prima battuta afferma che «non saprebbe cosa dire», alla fine taglia corto con un «non ho nulla da dichiarare sull'argomento».

Dotta adesso, come una altra ventina di manager del gruppo e una cinquantina di dipendenti, rischia di dover restituire la propria quota dei circa 30 milioni di euro che l'Inps avrebbe erogato in pensioni giudicate dai pm illegittime. Intanto, dalle carte recuperate dalla Verità, emerge che il piano del 2013 per i prepensionamenti all'interno della Manzoni, la concessionaria di pubblicità del gruppo, era stato benedetto da tutti i sindacati.

Il «verbale di accordo» sottoscritto al ministero del Lavoro il 5 agosto di quell'anno infatti oltre alla firma del rappresentante della società contiene anche quelle degli esponenti di «Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil nazionali», che approvarono «l'ammissione di un massimo di 53 unità lavorative al trattamento di pensionamento anticipato», riassunte in un piano che, per le sedi di Genova, Udine e Napoli, prevedeva l'esubero di tutto il personale.

L'inchiesta della Procura di Roma sta ricordando al mondo come i vertici del gruppo Gedi, progressisti e illuminati fuori, quando si trattava di confezionare Repubblica, Espresso e giornali locali come Il Tirreno e Il Piccolo di Trieste, fossero duri e spregiudicati dentro, quando si trattava di gestire i dipendenti con lo stesso piglio sabaudo di casa Fiat, da dove casualmente sono sempre arrivati tutti i top manager del gruppo editoriale fondato da Eugenio Scalfari e dal principe Carlo Caracciolo (cognato di Gianni Agnelli).

Un colosso finito prima nelle fauci di Carlo De Benedetti (1990) dopo la famosa guerra di Segrate con Silvio Berlusconi, per poi ritornare nelle mani degli Agnelli Elkann (fine 2019). L'inchiesta sui presunti falsi prepensionamenti svelata dalla Verità, costata alla Gedi il sequestro cautelativo di oltre 30 milioni, al momento riguarda solo il periodo 2012-2015, quando gli azionisti di riferimento del gruppo L'Espresso erano l'Ingegnere di Dogliani e i figli, il capo del personale era Roberto Moro, il direttore generale della divisione Stampa nazionale era Corrado Corradi, il capo della concessionaria di pubblicità Manzoni (che ha registrato gran parte dei prepensionamenti farlocchi) era Massimo Ghedini.

Moro e Corradi sono rimasti ai loro posti anche con il passaggio di Gedi alla Exor di John Elkann. Il capo del personale era entrato nel gruppo editoriale nel 2000, dopo 15 anni al personale della Fiat. Corradi era arrivato nel 1991 dalla Stampa di Torino. Entrambi, al pari di un altro uomo Fiat come Ezio Mauro, erano stati assunti dall'allora ad Marco Benedetto, a sua volta ex capo ufficio stampa della casa automobilistica e poi amministratore delegato del quotidiano torinese.

Benedetto è stato per anni non solo un mastino, ma anche un abile trait d'union tra Caracciolo e De Benedetti, diversissimi tra loro e con il primo accusato dal secondo di essere uno spendaccione troppo innamorato dei giornalisti. Benedetto, classe 1945, di editoria capiva parecchio, ma nel 2008 fu sostituito con un manager delle assicurazioni come Monica Mondardini, che era quindi il numero uno dell'Espresso all'epoca dei prepensionamenti e dei demansionamenti sospetti.

Chi tra il 2000 e il 2020 ha avuto l'ardire di fare il sindacalista nel gruppo ha sperimentato sulla propria pelle che cosa volesse dire trattare con manager forgiati alla scuola muscolare della Fiat di Cesare Romiti e nella palestra del sorridente cinismo dell'Avvocato.

Durante l'era in cui era la famiglia De Benedetti ad avere in mano le redini del gruppo editoriale, con la nomina della Mondardini, nonostante bilanci sempre in utile ci fu una raffica di prepensionamenti di manager, giornalisti, grafici, venditori di pubblicità. I sindacati interni avevano pochi spazi di manovra perché quando le vertenze s' inasprivano venivano immediatamente richiamati all'ordine dai loro vertici nazionali.

A cominciare, come ci ha rivelato un ex sindacalista del gruppo, da Franco Siddi, ex presidente della Fnsi, poi deputato del Pd e naturalmente giornalista del gruppo L'Espresso in perenne distacco sindacale. Oppure dai capi del sindacato dei poligrafici, la cui disastrata cassa previdenziale (il fondo Casella) veniva periodicamente «aiutata» con operazioni immobiliari.

Tra i giornalisti che si candidavano per i vari comitati di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) del gruppo c'era la poco edificante consuetudine di entrare con un grado e uscire dal mandato sindacale con un altro.

Più alto, ovviamente. E negli anni sui quali indagano ora magistratura e Guardia di finanza, i giornalisti più giovani del gruppo hanno assistito senza quasi fiatare allo spettacolo di decine colleghi più anziani, spesso inviati o vicedirettori, che uscivano con ricchi scivoli a spese della cassa dei giornalisti (l'Inpgi, nel frattempo saltata per aria e salvata dall'Inps) a soli 55-56 anni, per poi rientrare come collaboratori a fare le stesse identiche cose che facevano da dipendenti.

Chi ha vissuto in prima linea la gestione del personale di quegli anni ricorda che la madre di tutti i guai fu il ritiro della quotazione in Borsa di Kataweb, nel 2000, al termine di una lotta di potere tutta interna al gruppo L'Espresso. All'epoca di Kataweb, vinse il Partito Fiat che oggi, curiosamente, è sotto inchiesta per la gestione del personale.

Unicredit comprò prima della quotazione abortita il 5 per cento del portale Internet per 300 miliardi di lire, ovvero stimando la società la folle cifra di 6.000 miliardi, a fronte della realizzazione di una trentina di portali locali con il marchio Vivacity. Strangolata nella culla Kataweb, con i 300 miliardi di Unicredit, Mondardini, Corradi e Moro coprirono le perdite di Kataweb e la piazzarono dentro Elemedia insieme alle radio del gruppo, in modo da dedurre le perdite del portale Internet dai ricchi guadagni delle radio e abbattere anche l'imponibile.

E proprio un dipendente di Elemedia, per una sorta di contrappasso, è quello che in una mail inviata all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri ha svelato il presunto giochetto dei prepensionamenti arrivati con demansionamenti mirati di dirigenti e trasferimenti per poter avere accesso alla cassa integrazione.Adesso, il tema dei prepensionamenti eccellenti è destinato a esplodere laddove, a fronte di poche grandi firme prepensionate, e riprese in collaborazione con articoli strapagati, nei giornali locali si pagavano e si pagavano i collaboratori pochi euro a pezzo.Il resto dell'italian job di Repubblica è gravato sulle spalle di Inps e Inpgi, nel silenzio pressoché assoluto di dipendenti e sindacati.