la Repubblica, 10 gennaio 2022
Intervista a Brunori Sas
Appena 16 minuti, quasi un disco, anzi un ep per l’esattezza, ma abbastanza per scardinare ruoli e normative, per impazzire, per lasciarsi andare e non pensarci più e soprattutto per ridere, di sé, del mondo e del consumato ruolo del cantautore di cui Brunori Sas, lo voglia o meno, è il più accreditato erede contemporaneo. «È uno dei punti salienti del progetto» racconta dallo schermo in diretta dalla sua casa di Cosenza, «volevo liberarmi dall’idea di autodefinirmi un cantautore e raccontare la difficoltà di esserlo nel mondo d’oggi in cui ti devi confrontare con cose che non farebbero propriamente parte del mondo di un cantautore». Cheap, così si intitola l’ep, acronimo di Cinque Hit Estemporanee Apparentemente Punk,
ci consegna un Brunori inedito, o quantomeno sorprendente, sradicato, permissivo, con un pezzo in spagnolo maccheronico, battute in toscano e scherzi dissacranti.
Che succede, è uscito di senno?
«Era il desiderio di giocare sui ruoli, spesso ci si identifica troppo e un ruolo diventa una prigione, in Ode al cantautore rifletto sul dubbio che il modo stesso in cui mi pongo, la mia estetica, possano essere un cliché, e anche che sembra un’epoca di surrogati, tutto sembra un surrogato di qualcosa che c’era. Allora ribaltiamo tutto, giochiamo…».
Sì, ma quando canta “daje de tacco daje de stinco, quant’è bono sto Premio Tenco” si fatica a vedere il Brunori Sas che conoscevamo.
«Giocare è la parola chiave, e un gioco deve essere libero, liberandomi anche da certi obblighi, la prima cosa era farlo velocemente: i pezzi sono nati di getto, so che così funziono meglio. Lo pensa anche Lennon quando nel film Get back dice “noi lavoriamo meglio quando siamo con le spalle al muro”, e io, solo da questo punto di vista, sono come John».
John è ampiamente citato. C’è addirittura un pezzo intitolato “Yoko Ono”. È un paradigma?
«Certo, e lì mi serviva una voce fiorentina, così ho chiesto al regista Duccio Chiarini di prestarmi la voce all’inizio per porre la domanda essenziale: “Pole la donna permettisi di pareggiare con l’omo?”».
In tutto questo essendo appena diventato papà di una bimba, Fiammetta, bisogna riconoscere che ha resistito alla tentazione di scrivere una canzone sull’evento…
«Al momento sì, sto aspettando che arrivi, ma devo capire l’equilibrio tra il desiderio di farla e quello di non farla mai, visto che tutti se lo aspettano, magari la faccio quando farà 18 anni… però va tutto bene, in genere i calabresi si lamentano per principio pur di non essere oggetto di malocchio e invidia, invece sono contento, riusciamo perfino a dormire la notte. E mi diverto, c’è un pezzo cantato in spagnolo…».
S’intitola “Italiano – Latino” e anche qui all’ascolto verrebbe da dubitare che si tratti di lei.
«È un personaggio che spesso faccio, uno spagnolo che vuole fare le canzoni calabresi in spagnolo. Lo faccio anche a Fiammetta, la metto sulla sdraietta di fronte al divano, così la distraggo e provo le canzoni».
Alla fine c’è uno scarto di serietà, “Figli della borghesia” che riporta tutto verso l’alto. Un pentimento?
«Tutt’altro. Mi piaceva che alla fine ci fosse un pezzo a contrasto, anche negli altri ci sono varie frecciatine, ma questo è più emozionante. Il pezzo era una bozza che non trovava collocazione, l’inizio ce l’avevo: “Siamo figli della borghesia, affezionati alla bigiotteria, siamo i tappeti persiani ficcati sotto i divani”, però aveva un sapore anni Settanta, alla maniera di gente come Lucio Dalla, ma qui ci stava bene perché quello del cantautore è il filo rosso che lega tutto: è un modo di raccontare non solo le difficoltà del cantautore ma quella di un’intera generazione a trovare le misure per vivere nella contemporaneità. Viene fuori un piccolo film, mi serviva un pezzo per i titoli di coda, e Figli della borghesia era perfetto».
Il titolo ricorda quello del suo ultimo album, “Cip!”, come fosse una variazione su tema?
«Sì, inizialmente volevo farlo con robaccia, letteralmente cheap, addirittura col telefonino, poi ho pensato fosse troppo e ho usato la robetta che avevo in casa ma l’idea di fare una cosa dissacrante è rimasta.
Non ho corretto quasi niente. Aver deciso che il titolo fosse “cheap” mi ha liberato da tanti obblighi, ci sono le chitarre storte, cose registrate al volo, buona la prima».
Un suono raro rispetto all’artificialità delle iperproduzioni di oggi. Sarà anche un gioco ma qui c’è dell’ideologia, non le sembra?
«Qui potremmo aprire un simposio, è una fase della vita in cui non riesco più ad accettare il “sinc” del computer, potrebbe diventare un’idea quasi luddista, ma nasconde una verità importante, e cioè che il suono dell’omologazione che sentiamo significa che ci siamo piegati a una tecnologia che all’inizio era interessante ma che ha uniformato tutto. È una delle cose che mi hanno più impressionato vedendo il film dei Beatles, vederli così a nudo capisci che la magia era quella, che c’era una tensione nei musicisti che oggi non c’è più perché quando si incide si ha la consapevolezza che tanto si può sistemare dopo».
Si rende conto che quello che ha realizzato è un oggetto alieno ai tempi che corrono?
«Ne sono assolutamente consapevole ma non c’era l’intenzione di “farlo strano”, ma solo di non guardare nessuna regola discografica: lo volevo fare come piace a me, semplicemente.
È importante recuperare l’idea della passione per il processo creativo e non per il risultato, via via che fai carriera magari sposti sempre di più l’attenzione dal processo al traguardo. Qui non c’è obiettivo, non ho alcuna aspettativa, mi piacerebbe solo che fosse percepito lo spirito con cui l’ho fatto. Molti hanno paura di avere qualcosa da perdere, io sento l’esigenza personale di non collocarmi in quella dimensione, il mio piacere è quando chi ascolta non mi ritrovi nello stesso posto di prima.
Anche gli amici e i fan sono rimasti spiazzati, ho fatto degli ascolti di prova: un fan mi ha detto che forse doveva sentirlo una seconda volta per capire meglio. Va bene così».