Specchio, 9 gennaio 2022
Biografia di Rod Laver
È il 15 gennaio di sessant’anni fa e al White City Stadium di Sydney un ventiquattrenne dai capelli rossi sta alzando la coppa dei Campionati d’Australia di tennis. Papa Giovanni XXIII ha appena scomunicato Fidel Castro, a Marylin Monroe rimangono pochi mesi di vita, Kennedy e Krushev si guardano in cagnesco per la faccenda dei missili sovietici a Cuba. A ottobre uscirà il primo singolo di un giovane gruppo di Liverpool, The Beatles.
Il tennis da tempo è una faida fra americani e australiani, infatti il ragazzo rosso, pieno di efelidi e con un avambraccio sinistro ipertrofico, viene da Rockhampton, Queensland, città famosa per l’allevamento di bestiame. Si chiama Rod Laver, e già da un anno è il più forte di tutti.
Il tennis, all’inizio degli anni ’60, è ancora un mondo diviso. Da una parte gli amateur come Laver, che possono giocare i tornei più tradizionali e importanti, a partire dai quattro dello Slam, ma (in teoria) non possono farne un mestiere incassando compensi. Dall’altra i professionisti, che giocano per denaro in un circuito parallelo e peccaminoso, guardati come paria dai tradizionalisti della federazione internazionale. E Laver, prima di concedersi ai secondi, vuole dimostrare ai primi di non avere rivali.
Rod, ovvero the Rocket, il razzo i campionati di casa - che diventeranno Open, aperti a tutti, solo sei anni più tardi con l’abolizione della barriera fra dilettanti e professionisti - li ha già vinti due anni prima. Nel ’61 si è preso anche Wimbledon, battendo in finale lo yankee Chuck McKinley, ma toppando clamorosamente al Ballo dei Vincitori, tanto che da lì a pochi mesi inizierà a prendere lezioni di fox-trot da Yola Ramirez, una delle più apprezzate ballerine del circuito tennistico mondiale.
«Per il bene mio e delle altre signore in sala», puntualizzerà Rod. Un perfezionista.
A Sydney, una delle quattro città che ospitano a rotazione i campionati, in finale ha avuto la meglio sul suo amico Roy Emerson, e mentre alza la coppa il pensiero vola a Don Budge, rosso come lui di capelli, ma destro e cresciuto in California. Nel 1938 , guarda caso l’anno di nascita di Laver, Budge per la prima e per ora unica volta nella storia è riuscito a vincere nello stesso anno solare i quattro grandi tornei - oltre all’Australia, il Roland Garros, Wimbledon e i Campionati degli Stati Uniti - conquistando il Grande Slam. Il graal del tennis. Una impresa quasi impossibile. Quasi.
I Campionati di Australia, all’inizio dei Sixties, non sono la macchina da soldi di oggi. «Erano organizzati in maniera molto dilettantesca, se paragonati con gli altri tornei, specie Wimbledon, dove i giocatori si sentivano apprezzati e tutto funzionava come un orologio», racconta Laver nella sua autobiografia. «Nel più importante dei tornei australiani tutto sembrava fatto improvvisando e al risparmio - piccole cose, come essere trattati con distacco dagli addetti e non avere sedie a sufficienza per sedersi ai cambi di campo, o palle nuove per gli allenamenti». Difficile oggi immaginare Federer o Djokovic alle prese con problemi del genere. Rod, figlio di un’altra epoca e di un’altra mentalità, invece sa adattarsi. Ha imparato a giocare a nove anni - l’età a cui oggi i campioncini sono già sotto contratto con qualche grande marchio - prima al club poi su un campo che papà Roy, allevatore, macellaio ma anche campione regionale di tennis, ha ricavato pressando e compattando il terriccio ricavato dai termitai. Charlie Hollis, il suo primo maestro, gli ha consigliato di colpire il rovescio a tutto braccio, invece di tagliarlo, e di usare il top spin, l’effetto a salire, da entrambi i lati. «Andavo da Charlie un’ora alla settimana, con altri 20 o 30 ragazzi. Mai avuto una lezione privata».
Quando il braccio e il polso sinistro del figlio hanno iniziato a trasformarsi in una tenaglia manovrata da geometra, si è fatto 500 miglia in macchina per portarlo a Brisbane a una clinic di Harry Hopman, il mago del tennis australiano. «Hop» ci ha messo un secondo a capire chi aveva di fronte, perché il ragazzino si muove con flemma apparente, quasi ciondolando, ma alla fine riesce a frustare la palla di dritto con un top-spin naturale, a trasformare il rovescio mancino reiventato da Hollis in vincenti imprendibili e a passare e lobbare nello spazio di un centrotavola.
Nel 1956 Hopman se l’è portato in giro per il mondo, nel 1958 l’ha fatto esordire in Davis. Quattro anni dopo il mancino dai capelli rossi è già una star, e così - sempre mentre alza la coppa degli Australian Championships in quel gennaio di 60 anni fa - Rod oltre che al Grande Slam sta pensando al suo futuro. I professionisti gli hanno già offerto un contratto biennale da 33.000 dollari, e rilanciato a 70.000 dopo il primo successo a Wimbledon. Fra finti rimborsi e compensi sottobanco - si chiama shamateurism, il dilettantismo della vergogna… - Laver ora ne può portare a casa circa 30.000 mila. A fargli decidere che il ’62 sarà l’ultimo anno fra i dilettanti è anche l’assurda decisione della federazione australiana di vietare un match di doppio fra lui ed Emerson e i «pro» Hoad e Rosewall i cui proventi sarebbero andati alle vittime degli incendi che, come capita ancora oggi, stavano devastando le campagne. Mescolarsi agli sporchi professionisti? Non sia mai…
Laver è un tipo calmo, che parla pochissimo e quando ha finito di crocifiggerti in campo quasi si scusa («Peccato, hai avuto sfortuna», «Il campo era terribile», «bel match, avresti meritato di vincere»). Piuttosto che perdere però si amputerebbe il braccio sinistro e da Sydney in poi lo dimostra in maniera che oggi definiremmo plastica.
Se in Australia ha faticato soprattutto al terzo turno contro Geoff Pares, a Parigi a metterlo in crisi è un altro connazionale, Martin Mulligan, che poi giocherà anche da naturalizzato per l’Italia in Coppa Davis. A Martino è costretto ad annullare un matchpoint, ma deve poi sudare cinque set anche contro l’amico Emerson in semifinale e contro Fraser in finale. A Wimbledon distrugge Mulligan lasciandogli 5 game sul Centre Court: «Uno di quei giorni in cui vuoi solo trovare un buco nel campo e scomparirci dentro», racconta ancora oggi Martino con il suo delizioso accento australo-romanesco. A Forest Hill, la sede dei Campionati Usa, Laver arriva favoritissimo, ma con i nervi sfilacciati. Nel 1956 il suo idolo Lew Hoad dopo aver vinto tre Slam è inciampato sull’ultimo ostacolo proprio a New York, come accadrà 65 anni dopo a Djokovic e come era capitato nel ’33 a Jack Crawford. Il vecchio Budge invece di gufare si prende cura dell’erede. Lo porta due giorni ritiro a Catskills, in un resort, e lo motiva come neanche Mourinho: «Hai tutti i colpi, Rod, nessuno in questo torneo può batterti. Rilassati, e non pensare al Grande Slam». Poi racconterà che Laver lo ha «quasi battuto», lasciando di stucco il diretto interessato, che ricordava solo qualche drink e pochi palleggi; ma insomma anche i miti hanno le loro debolezze. Rod comunque non lo delude, concede appena tre set in tutto il torneo, uno al compare Emerson che alla terza sconfitta Slam dopo Sydney e Parigi si concede una battutona: «Be’, direi che Rod quest’anno ha battuto alcuni ottimi giocatori, in finale…».
Un anno in cui Rod il rosso ha vinto 19 dei 34 tornei (sì, 34) a cui ha partecipato, conquistando oltre allo Slam anche gli internazionali d’Italia e Germania e la Coppa Davis. In totale, ha vinto 139 dei 145 match in cui è sceso in campo. Tanto per capirci: l’anno scorso Djokovic, fallendo il Grande Slam all’ultima partita, ne ha giocati complessivamente 62 (più 10 in doppio) con 7 sconfitte e 5 tornei vinti. Ma nove milioni di montepremi, contro gli spiccioli finiti nelle tasche di Rod.
Per chiudere un Grande Slam serve anche molta fortuna e in quel 1962 Laver ne riscuote una dose. Ad esempio dopo Wimbledon, quando l’aereo che lo porta in Olanda manca di poco una collisione in volo, e per via della brusca manovra 26 dei passeggeri devono essere ricoverati all’arrivo anche con brutte fratture. Rod, educato al rigore militaresco di Hopman, ha sempre tenuto le cinture di sicurezza allacciate.
Liberato dal trionfo nello Slam, Laver gioca in California, dove incontra John Wayne e Burt Lancaster, mentre Kirk Douglas e Charlton Heston lo invitano al barbecue. Al ritorno a Rockhampton invece lo accolgono in 1000, gli consegnano le chiavi della città e la mamma dichiara commossa alla stampa: «È rimasto lo stesso Rod di sempre, mi chiama ancora Mum». L’anno si chiude con il 5-0 a zero rifilato al Messico a Brisbane, nel Challenge Round, la finale di Coppa Davvis. Nella posta c’è anche anche un telegramma del vecchio Charlie Hollis, il suo primo maestro: «Congratulazioni. Adesso fallo di nuovo».
E anche stavolta Rod lo accontenterà, dopo 5 anni passati fra i pro, completando il suo secondo Grande Slam, nel 1969. Ma questa è un’altra storia.