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 2022  gennaio 09 Domenica calendario

Confessioni di un accumulatore selvaggio

Sì confesso, sono stato un accumulatore seriale. Compulsivo, patologico, debordante, esagerato, confuso. Fate voi. Qualsiasi aggettivo nefasto s’attaglia a una passione che può devastare la vita. Gli "studiosi" della psiche cercano di inventare definizioni scientifiche nella loro illusoria tassonomia della complessità umana. Un termine ricorrente è "disposofobia". In medicina indica quei soggetti che hanno difficoltà a separarsi dagli oggetti. In pratica, senza eufemismi, significa abitare "case da incubo" dove il disordine è così invadente da rendere l’ecosistema invivibile. O noi (umani), o "loro" (l’ammasso tracimante di cose).

Sesso e possesso
Io ho capito di essere un accumulatore fin da bambino. Il piacere di accumulare precedette di gran lunga la coscienza del sé. Forse addirittura quella di "gender". Perché nell’accaparramento non c’è nulla di "fluid". Tutto è dannatamente definito e duraturo. Del primo giorno di scuola, in prima elementare, ho un ricordo vago dell’edificio, dei volti, dell’alfabeto che la maestra imbarazzata tracciò con il gesso sulla lavagna. Era imbarazzata perché la mia compagna di banco Arianna *** si fece la pipì addosso, rossa di vergogna, mentre stavamo in piedi per l’appello e le autopresentazioni, e il bidello spargeva segatura in terra. Non ricordo ciò che disse mio padre lasciandomi sulla soglia della scuola. Ricordo invece che un signore, all’uscita, ci regalò album di figurine sulla storia d’Italia. E ricordo la folgorante beatitudine che mi rapì quando aprii la prima bustina della mia vita e dallo strappo emersero cinque immagini colorate belle come miniature. Sulla strada di casa mi comprarono (credo il nonno) un barattolo di colla dall’odore gradevolissimo, la Coccoina (la vendono ancora oggi nel medesimo barattolo argento supervintage). Entrato nel silenzio della mia cameretta cominciai ad applicare le figurine negli appositi spazi numerati. E scoprii che era stupendo farne collezione, comprarle dal giornalaio (solenne come un tempio), chiedere gli esemplari mancanti con vaglia postale. Sfogliare le pagine croccanti dell’album che progressivamente si riempiva era piacere puro, ma era altrettanto piacevole accumulare le doppie, triple, quadruple, in scatole che servivano per gli scambi, per i primi giochi d’azzardo (in cui vincevi davvero e perdevi davvero le figurine), o per il gaudio di possederne tante. Storia del west, calciatori, cantanti, animali esotici, Nick Carter, Linus. Quando sollevavi il coperchio di legno per ammirare il tesoretto provavi la stessa perversa libidine del mercante di Venezia che accumula denari. L’orgasmo prima che una roba di sesso lo fu di (pos)sesso.

Di nascosto dalla mamma
La pulsione a riempire la cameretta si fece man mano più variegata. Dopo le figurine arrivarono i francobolli (con la relativa propaganda postale del mondo diviso tra imperialisti e socialisti), i minerali, le farfalle, i fossili, gli alambicchi e le polverine del "piccolo chimico", le cartoline, le scatole di fiammiferi. Tutti chiodi fissi che i famigliari alimentavano ingenui. Credevano di fare regali "intelligenti" per stuzzicare la curiosità di un bambinastro assetato di conoscenza. Non sapevano di nutrire un mostro. Tra gli oggetti del desiderio dell’accumulatore in erba c’erano anche i fumetti. Questi dovevano essere stipati in luoghi più segreti, perché la mamma non amava che si «perdesse tempo» con Tex, Zagor, Uomo Ragno, o peggio ancora con Diabolik, Satanik, Kriminal, Zora la Vampira… il massimo fu durante la naja, quando mi aggiravo tra le camerate araccogliere nei cestini gli albi dei fumetti porno che i commilitoni (saggiamente) buttavano. Nell’armadietto accumulavo copie slabbrate del Tromba, Sukia, Corna vissute, Pig, La poliziotta…
A proposito di mamme, sono loro il peggior nemico dell’accumulatore bambino. Altro che complesso d’Edipo! È la loro tirannica idea di ordine a provocare traumi profondissimi. Ogni tanto, implacabili come il Fato, piombavano nella stanza dei figlioli e cominciavano a indicare amati cimeli, giocattoli rotti, cianfrusaglie, «Cos’è questo? Via! La roba che non serve più si butta!» E il confortevole "pieno" della stanza diventava d’un tratto vuoto, pulito, "a posto". Orrendo come un sorriso sdentato. E se afferrava (sempre lei, la genitrice) una scatola dei soldatini Airfix "Afrika Korps" proponendo «la regaliamo ai bambini poveri?» Altra ferita lancinante che provocava rigurgiti di rancoroso classismo, razzismo, edonismo, antibolsceivismo…

Doppie e triple file
Crescendo, il desiderio di accumulo dilagò. Sorpresine Kinder, tappi di bottiglia, bustine di zucchero, lattine, scatole, etichette alimentari, palle di neve, pupazzi, paccottiglia da autogrill. Il peggiore kitsch trovava una redenzione di bellezza nel contesto di una collezione. Per un vero accumulatore il valore non conta, un Basquiat o un sottobicchiere da birra in cartoncino pura pasta di legno assorbente sono più o meno la stessa cosa. Naturalmente entrarne in possesso è un filino diverso (ma sono quisquilie da mercanti).
L’articolo più deleterio, però, furono i libri. Presi singolarmente sono minuscoli, pochi centimetri cubi di materia, un’inezia rispetto ai tesori di fantasia, saggezza, libertà che contengono. Ma senza che tu te ne accorga diventano spaventose orografie del disordine. Gli scaffali delle (benedette) Billy (ikea) si riempiono di doppie e triple file. Classici, esordienti, pensieri di Kim Il-sung, preghiere, bricolage, volumetti d’ogni genere si impilano accanto ad ogni spanna libera di parete. Negli angoli. Nei bagni. In cucina. Ai bordi del letto. Su qualsiasi superficie d’appoggio. S’innalzano verso il soffitto, crollano. Formano una cinta muraria casalinga che come in ogni città medievale protegge e soffoca (infatti poi le mura le abbatterono). Nel corso degli anni quella che sembrava un’affascinante biblioteca di babele diventò via via un Moloch sgarbato che respingeva il resto. Gli amici, i parenti, gli amori, la vita, nulla riusciva più a entrare in casa perché poltrone divani corridoi erano ostruiti. «Chissenefrega» pensa l’accumulatore sempre più autistico «a me bastano i libri». E se un amico, un parente, una fidanzata estrae da una colonna pericolante un volumetto e chiede «Me lo impresti? », l’accumulatore lo fulmina con un «no» di trionfante egoismo.

I nemici di sempre
Questa è stata la mia vita. Un irreprimibile bisogno di riempire stanze, cantine, soffitte, magazzini, uffici. Qualsiasi cosa era degna di essere strappata all’oblio. Salvata dalle discariche. Conservata. Nel periodo più "militante", faticai a disfarmi persino del packaging alimentare. Mi misi a fotografare i rifiuti dei pasti, le scatole di pasta, le buste di minestre liofilizzate, gli involucri, le lattine, i cartoni, come in una specie di creazione pop-artistica. Non possedevo alcun talento, non capivo una fava di fotografia, era un bieco pretesto per trattenere. Scattavo centinaia di immagini a roba che la gente normale butta il prima possibile. Naturalmente s’accumulavano pure quelle in computer, unità esterne, hard disk. Acari, microorganismi, scarafaggi, blatte, ragni… diventarono compagni fedeli nella solitudine dell’accumulatore selvaggio. Nemici giurati erano invece l’ufficio d’igiene, i vigili del fuoco, le assemblee condominiali, il vicino del piano di sotto che suona il campanello con l’ingegnere strutturista per verificare la staticità del pavimento.

Una nuova divinità
Un giorno, non so perché, ho preso un sacco dell’immondizia nero. Ad occhi chiusi vi ho infilato dentro a casaccio ciò che capitava sotto mano. All’inizio è stato come strapparmi un’unghia, un pezzo di pelle, una pupilla. Un dolore pazzesco. Sono andato avanti un paio di minuti. Per non esagerare. Poi ho chiuso il sacco. Ho sceso le scale in trance. Ho aperto il bidone dei rifiuti urbani e ho consegnato una minuscola porzione del mio caos al termovalorizzatore. In casa è ricomparso il bianco di pareti sgombre. Ho cominciato a provare il piacere del vuoto. Il sollievo della guarigione. Ho capito che l’amato Proust ha torto. La madeleine che riporta il sapore del tempo perduto è un’illusione. Una menzogna. Una fregatura. Le cose vecchie hanno solo il sapore rancido dell’inutile e del passato che non torna più. Il cammino del riordino è ancora lunghissimo. Ma come un fedele in pellegrinaggio ho intravisto una benigna sconosciuta divinità cui votarmi: il nulla.