Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  gennaio 10 Lunedì calendario

Intervista a Marco Bocci

Marco Bocci, la sua opera seconda, La caccia, com’è? 
Radicalmente diversa dal mio esordio alla regia del 2016, A Tor Bella Monaca non piove mai, e a stupirsene sono stati per primi gli attori. Il titolo è provvisorio, quello definitivo forse sarà L’amore al contrario. Ma la caccia ha un senso, è una metafora: andare a caccia, portarsi a casa una sorta di bottino, l’umanità del prossimo.
Tre fratelli, Filippo Nigro, Paolo Pierobon e Pietro Sermonti, e una sorella, Laura Chiatti, riuniti alla morte del padre. 
Si amano follemente, però non si frequentano, non riescono a guardarsi negli occhi. Costretti a vivere in modo troppo rigido da bambini, non ne sono usciti formati come voleva il padre, bensì distrutti psicologicamente: mal comune mezzo gaudio, si ritrovano, ma non sanno stare insieme.
Allegoria, anzi, allegria… 
È una storia complicata, volevo raccontare l’anima delle persone, nella maniera più cruda, più violenta. Dolore, piacere, possibilità, e una sorta di salvezza: rincorrere, come facciamo tutti quanti, una maniera sana di vivere e viversi.
L’ispirazione?
Una riflessione, amara: siamo ormai condannati a una vita non più fatta di rispetto per l’altro, condivisione e comunione, bensì di autorealizzazione, economica, professionale e sentimentale, di noi stessi. A questo ho aggiunto il sangue, la fatica e i paraocchi della famiglia, dove l’amore se c’è è difficile da manifestare. Dunque, l’individualismo cosmico in una società complessa e la caccia, di cui pur non essendo cacciatore da umbro conosco sin dall’infanzia linguaggio e meccanismi.
Per Wikipedia rimane “un attore italiano, noto per il ruolo del commissario Scialoja nella serie tv Romanzo Criminale e del vicequestore Calcaterra in Squadra antimafia.
Wikipedia sta indietro, ma non dice il falso: sono “noto per” quello, non mi illudo. Parti importanti, in virtù delle quali i più mi ricorderanno sempre, ed è giusto così: prima dell’uscita di Romanzo criminale a Roma prendevo bus e metro, una settimana dopo era impossibile. Pure George Clooney…
George Clooney?
È ricordato ancora per E.R., non so come spiegarmi.
In Italia, almeno dal triangolo Anna Magnani, Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, amore e set si sono sempre incrociati: ne La caccia lei dirige sua moglie, Laura Chiatti.
Noi abbiamo fatto il percorso opposto: prima coppia, poi il corteggiamento, mio, per lavorare insieme. Laura non pensava fosse una buona scelta, e nemmeno io ero del tutto convinto, ma siamo stati felicemente smentiti.
Che cosa invidia a Laura? 
Schiettezza, naturalezza, la capacità di non farsi mille paranoie: per lei il mestiere è solo divertimento, io mi ci arrovello.
L’invidia degli altri la sente? 
Sono un disastro, non ci faccio caso. Ragiono sempre per buona fede, non vedo mai il male, per cui prendo tante inculate: nemmeno me ne accorgo, me le raccontano dopo.
È nato a Marsciano, venti chilometri da Perugia, il suo secondo romanzo s’intitola In provincia si sogna sbagliato. Davvero?
Una provocazione, non esistono sogni sbagliati, al contrario, volevo stigmatizzare un mondo che si vuole limitato ai confini del paese, un ambiente povero non di risorse, ma di mentalità. Un’attitudine spicciola, ignorante, scarsa, questo è sbagliato.
I suoi di sogni?
Teatro, prima dialettale, poi in piazza, le tournée, il conservatorio, quindi Ronconi, il sacrificio, e l’amore. Sono ventiquattro anni che faccio questo mestiere, e la logica dell’apparire non l’ho mai avuta, mai avrei pensato di fare serie tv e cinema: il mio pensiero era piccolo, di provincia, fantasticavo coi piedi per terra, sognavo dietro l’angolo.
E Romanzo criminale?
Mi ha frastornato, sebbene non mi sia lasciato prendere dal panico. I problemi sono arrivati dopo: l’ho digerito male, sentivo il pregiudizio verso colui che ha avuto tanto successo. Per rompere questo stigma mi son messo a scrivere, racconti, sceneggiature, ma non lo facevo più come prima, per sfogo, per liberazione, ma appunto per cercare di far vedere che…
Prima la storia con Emma Marrone, poi il matrimonio con Laura Chiatti: il gossip non ha aiutato.
Sono riservato, mi son trovato a vivere in maniera molto esposta, e non ero in grado di gestirlo: ho patito, sofferto, mi ritrovavo sbattuto in virgolettati di cui non mi fregava un cavolo. Ma quella sovraesposizione ha richiamato un surplus di isolamento e una spinta interna: ho buttato fuori cose che avevo bisogno di buttare fuori.
Modelli ne ha trovati? 
Per La caccia potrei dirle Thomas Vinterberg, Lars von Trier, Yorgos Lanthimos o – è folle solo confessarlo – la nostra Lina Wertmüller. Ma…
Dica, Marco Bocci.
Metto in scena solo le dinamiche che conosco. I miei figli sono più importanti di Fellini.