Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  gennaio 10 Lunedì calendario

Il lamento di Tomaso Montanari sugli Uffizi

Secondo lo Statuto, il Comitato scientifico degli Uffizi è riunito dal direttore del museo con “cadenza almeno semestrale”. Ma in tutto il 2021 il Comitato non è stato convocato nemmeno una volta: così che per l’anno appena finito non esiste “la relazione annuale di valutazione annuale delle Gallerie”, e nessuno ha verificato e approvato “le politiche di prestito e di pianificazione delle mostre”: alcuni dei compiti che spettano al Comitato stesso.
Lo so per certo: perché sono uno dei quattro membri di quel comitato, designato dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali. E perché non ti dimetti, invece che raccontarlo su un giornale, direte voi? Semplice, perché ci ho già provato. L’ho fatto nel febbraio 2020, insieme a tutto il comitato: perché già allora il nostro lavoro era completamente vanificato dal solipsismo arrogante del direttore. Scrivemmo al ministro Franceschini: “Pensiamo che le dimissioni collettive del Comitato del più importante museo italiano renda ineludibile un ripensamento e una ridefinizione del ruolo dei Comitati Scientifici nel governo dei musei autonomi”. La risposta arrivò molti mesi dopo, nel luglio del 2020: il capo di gabinetto di Franceschini, Lorenzo Casini, ci scrisse una lettera “d’ordine del ministro”, in cui scriveva che “tenuto anche conto della importante fase di ripresa che aspettano il Paese, il Ministero e naturalmente le Gallerie degli Uffizi, sarebbe importante per questa amministrazione poter continuare a fare affidamento sulle vostre competenze. Vi chiederei, dunque, di riconsiderare la decisione da voi presa a febbraio, con l’auspicio che possiate proseguire a offrire il vostro contributo come membri del comitato scientifico delle Gallerie”. Dopo assicurazioni verbali che il Ministero avrebbe garantito l’applicazione dello Statuto, accettammo di riprovarci: evidentemente sbagliando. A rendere la cosa grottesca, nell’ottobre 2021 il Comitato è stato confermato per altri cinque anni: cinque anni di esistenza solo sulla carta.
Se ci fossero stati dubbi sul fatto che i musei come sono stati ridisegnati dalla riforma Franceschini non sono enti di ricerca e conoscenza, ma uffici propaganda della politica con uomini soli al comando, questa vicenda clamorosa serve a fugarli del tutto.
Il massimo museo italiano vive da un anno senza direzione scientifica, e il suo direttore opera senza essere valutato né consigliato: e a nessuno sembra non dico grave, ma nemmeno interessante.
Sono davvero tante le cose di cui avrei voluto parlare in quel comitato. A partire dall’idea stessa di museo che gli Uffizi stanno imponendo.
Pochi giorni fa un sito certo non sospettabile di leninismo né di pauperismo francescano (We Wealth!) ha commentato la notizia che “la Galleria degli Uffizi ha fatto riprodurre in nove copie digitali ‘Nft’ il dipinto di Michelangelo Buonarroti Tondo Doni. La prima di queste ‘copie’ è stata venduta per 240mila euro”, mettendola in relazione “alla visione del direttore della Galleria, Eike Schmidt, secondo cui il museo è un’azienda, [per cui] gli Uffizi ripeteranno il redditizio esperimento con altre opere”. E osservando: “Dal punto vista legale, non esistono impedimenti. Da quello dell’arte, che pure accetta la novità di buon grado, non sottolineare le differenze tra opera materica e digitale è un errore”. Ecco una questione di cui avremmo dovuto discutere: una tra mille.
Ne cito solo un’altra: capitale. L’iniziativa degli Uffizi diffusi. In pratica l’idea di esporre in sessanta sedi sparse per la Toscana (“ma io ne vorrei cento”, dice il direttore) opere degli Uffizi, portando ovunque il marchio del celeberrimo museo. Insomma, il franchising: gli Uffizi come Benetton. Un progetto amatissimo dagli amministratori locali, che vedono sbarcare nel loro territorio la gallina fiorentina dalle uova d’ora della bigliettazione. Ma anche un progetto che riesce a fare strame insieme della storia di una galleria principesca e della ricchissima geografia storica e artistica della Toscana.
È un singolare paradosso: la nascita dei musei autonomi è avvenuta a spese della tutela del patrimonio diffuso sul territorio e dei musei minori. E ora che le Soprintendenze sono moribonde e le Direzioni museali delle regioni soccombono per inedia economica, ecco che i super-musei partono alla conquista del territorio, colonizzandolo con il loro marchio. Intendiamoci: moltissime opere entrate agli Uffizi dopo la fine del collezionismo mediceo potrebbero benissimo essere restituite alle loro sedi originali (quando esistano ancora e non si producano falsi storici), ma allora non sarebbero gli strombazzati “Uffizi diffusi”, bensì la paziente ricucitura di quei territori.
Sfide appassionanti, sirene pericolose, sfrenate ambizioni personali: un groviglio che si poteva, e doveva, dipanare in una discussione scientifica. Proprio quella che non si vuole: forse perché in fondo di scientifico non c’è davvero più nulla, in questo circo.