il Giornale, 10 gennaio 2022
Un saggio di Virman Cusenza sull’affaire Interlandi
È nelle zone grigie che ci s’imbatte nelle storie più luminose. Ecco qui: da quell’appiccicosa zona grigia in cui si mossero milioni di italiani, in bilico tra fascismo, antifascismo, indifferenza e stanchezza, e che non ne volevano più sapere del conflitto e dei suoi strascichi, cercando solo di uscirne con il minimo dei danni il prima possibile, tra la fine del 1945 e l’inizio del ’46, fra guerra civile, vendette e cinismo, spunta una vicenda esemplare di quello che fu l’Italia di quei mesi, rimasta a lungo a conoscenza di pochi, e non in tutti i particolari, ora svelata da un lavoro di ricerca storica merito dell’autore, Virman Cusenza – da manuale.
Un fatto che ha come protagonisti un avvocato celebre nella Brescia degli anni Trenta e Quaranta, e poi del tutto dimenticato. E uno dei più feroci giornalisti del regime, megafono della politica razziale di Mussolini, dalla fine delle guerra condannato alla damnatio memoriae. Il primo, che ne esce più eroico di quanto i suoi stessi amici abbiano a lungo sospettato, si chiama Enzo Paroli, socialista e antifascista, toga di grido nella città dell’epoca, professionista elegante, anticonformista e tombeur de femmes: fu ostinato amante della sorella di Ferruccio Sorlini, feroce squadrista della zona del Garda. Il secondo, che ora ci appare persino più umano di quanto tanta pubblicistica ci ha raccontato, si chiama Telesio Interlandi, uno dei giornalisti più fedeli di Mussolini, raffinato intellettuale e antisemita, agitatore della più violenta propaganda antiebraica del Ventennio.
E l’episodio di cui furono protagonisti – che tiene dentro senso del dovere, coraggio, azzardo, paura e un’idea superiore di giustizia – è un inconsueto e raro atto di pura generosità, senza richiesta né offerta di contropartita. Quello con cui Enzo Paroli prima accettò di difendere dall’accusa di collaborazionismo Telesio Interlandi, e poi lo tenne nascosto con moglie e figlio nello scantinato della sua casa bresciana, per otto mesi e mezzo, al riparo dalle retate della polizia e delle bande partigiane, salvandolo fino alla amnistia Togliatti del giugno 1946 – da un sicuro regolamento di conti. In quei giorni una raffica di mitra era il mezzo migliore per chiudere le faccende più semplici come le più ingarbugliate.
La storia di Enzo Paroli, morto nel ’66, e al quale nessuno ha mai consegnato una medaglia al valore, e quella del superlatitante Telesio Interlandi, sopravvissuto a una giustizia che avrebbe potuto essere soltanto vendetta, è rimasta di fatto nascosta per oltre 40 anni nella cantina in cui convissero le due famiglie. Poi arrivò alle orecchie di Leonardo Sciascia, un uomo per il quale qualsiasi giustizia terrena non trattenuta dalla pietà è solo l’anticamera della vendetta. Lo scrittore siciliano, come siciliano era Interlandi, si incuriosì di quello straordinario gesto tanto paradossale quanto disinteressato: volle incontrare i parenti dell’avvocato, andò a Brescia per raccogliere appunti, mentre a Roma parlò col figlio di Interlandi. Sciascia – era il 1989 – aveva anche in mente il titolo del libro che voleva scrivere: Il razzista e l’antifascista. Ma la malattia non gliene diede il tempo. Anni dopo sarà Giampiero Mughini, altro siciliano, di Catania, a raccontare di Telesio Interlandi e di quella Roma artistica, furiosa e vitale: il suo libro A via della Mercede c’era un razzista (1997) cita anche i fatti di Brescia.
Ora, dopo un lungo studio della vicenda, la scoperta di documenti inediti, carte di archivio e nuove testimoniante, è Virman Cusenza, siciliano di Palermo e giornalista di lungo cursus honorum (firma del Giornale di Montanelli, poi direttore del Mattino e quindi del Messaggero), a ricostruire in ogni dettaglio il complicato affaire, calandolo – come era necessario fare nell’Italia del tempo, dove a dominare non era né il bianco né il nero, ma tutte le sfumature della meschinità, dei «canguri giganti» che saltarono l’8 settembre, dei minuscoli tornaconti, di nobili principi e di meschinità. È tutto qui dentro: Giocatori d’azzardo. Storia di Enzo Paroli, l’antifascista che salvò il giornalista di Mussolini (Mondadori). Definitivo.
Tutto inizia a Brescia, nel novembre 1945. L’avvocato Enzo Paroli, figlio di un principe del foro locale, impeccabile preparazione professionale e solida cultura socialista (e soprattutto uomo che non si lascia soggiogare dall’odio in quell’Italia confusa e ideologica) incontra nell’affollato carcere di Canton Mombello il detenuto Telesio Interlandi: penna brillantissima, amico personale del Duce, già direttore dello spregiudicato quotidiano Il Tevere e poi del settimanale Quadrivio sulle cui pagine scriveranno giovani e meno giovani che dopo la caduta del fascismo saranno personaggi di primo piano sia dell’antifascismo sia della resistenza: Cardarelli, Soldati, Pirandello, Corrado Alvaro, Antonello Trombadori, Brancati, e poi Ercole Patti, Corrado Sofia, e lo stesso Malaparte mentre è al confino a Ischia – e quindi dal ’38 al ’43 direttore del famigerato quindicinale La difesa della razza, pochissime copie stampate ma parole che pesano come pietre, punto di riferimento della politica razzista messa in atto dal fascismo. Interlandi è accusato di «collaborazionismo» con l’invasore nazista. È scappato da Roma sul Garda, sebbene non avrà alcuna carica nella Repubblica di Salò, anzi rifiuta persino la direzione del Corriere della Sera (per quanto non indietreggi di un passo rispetto alle sue idee razziste). Paroli da parte sua si rende conto di avere davanti un irriducibile pesantemente compromesso col fascismo, certo; ma prima di tutto una persona in pericolo di vita. Se lo avessero trovato i partigiani lo avrebbero giustiziato, forse anche con moglie e figlio. Con un colpo d’azzardo assume la difesa del giornalista. Approfitta di una mai chiarita quanto rocambolesca scarcerazione del prigioniero e decide di nasconderlo nella propria casa fino al giugno ’46: oltre otto mesi, in cui, diversi in tutto, i due uomini sono costretti a vivere, parlare e aver paura fianco a fianco.
Archiviato il caso Interlandi vivrà libero e persino ricco, ma isolato, fino al 1965 restano una domanda e un insegnamento. La prima: cosa spinge un brillante avvocato a mettere a repentaglio la propria carriera per proteggere un vinto, uno sconfitto dalla Storia? (risposte: «pietas»? senso di umanità? anticonformismo?). Il secondo è che a salvare l’Italia del dopoguerra da una divisione ancora oggi non del tutto ricomposta, simboleggiata da due famiglie così diverse obbligate a convivere su due opposte barricate ideologiche, non poteva e non dove essere una giustizia tetragona e fanatica. Ma, forse, singoli atti di disinteressata tolleranza e solidarietà.