il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2022
Biografia di Sergio Rubini raccontata da lui stesso
Attenzione: ottenere risposte secche, dirette, da Sergio Rubini è quasi impossibile. A dispetto dell’apparenza un po’ dinoccolata, a volte fumettistica, con i tratti del volto che sembrano usciti dalla matita di Andrea Pazienza; a dispetto di una certa fama di scavezzacollo delle emozioni (proprio sul Fatto Valeria Golino l’ha definito, con affetto, “un uomo pericoloso”) e di un’esistenza artistica giocata su tutte le gradazioni vocali e fisiche del catalogo cinematografico e teatrale (dalla commedia al dramma), lui è proprio serio. Serissimo. Ogni atto, gesto e scelta sono ponderati in partenza o almeno trattati con una forte stratificazione di analisi psicologica nel post atto, gesto e scelta. Non si rifugia mai in superlativi assoluti o in metafore. È più un bibliotecario della sua arte. E da bibliotecario è preoccupato della polvere sui manoscritti, tanto da prendere un panno, toglierla e portare prima al cinema e poi in televisione la storia de I fratelli De Filippo. Con grazia, amore e una dedizione che lo hanno reso un successo (“Ci ho lavorato sette anni”).
L’input…
È un racconto popolare, tipicamente italiano, che andava realizzato; un racconto che è nel Dna del nostro Paese.
Aveva mai ricevuto così tanti complimenti?
No, anche perché a causa della pandemia il film si è scostato dalla routine: questa volta è passato dalla sala alla televisione con tempi brevi. Ed è il più visto su RaiPlay; (pausa) è una storia che racconta la parte sana del nostro Paese, quella parte svantaggiata in partenza ma in grado di uscire fuori con talento, tenacia, sangue, sudore e lacrime.
Gli ostacoli spesso servono a capire cosa uno veramente vuole.
Gli artisti hanno la fortuna di poter tradurre i problemi in ispirazione, opere, progetti; però non bisogna esagerare e in qualche modo Scarpetta (il padre dei De Filippo) era andato un po’ oltre: i suoi tre figli li ha feriti e umiliati, neanche potevano prendere l’ascensore per salire a casa del padre.
Per i De Filippo ha utilizzato tre attori sconosciuti.
La giovinezza non è riproducibile, se avessi coinvolto dei volti noti magari non avrebbero avuto l’età giusta e magari non sarebbero stati napoletani.
L’hanno soddisfatta?
Sono entusiasta: Napoli produce artisti quasi inconsapevolmente, la recitazione fa parte della loro lingua.
I De Filippo li ha mai visti a teatro?
Da ragazzino sono entrato nel camerino di Peppino.
E come è andata?
Incontro pazzesco; allora vivevo ancora in Puglia e la domenica pomeriggio raggiungevo Bari per gli spettacoli teatrali: ero un “loggionista”. Quando sono stato davanti a Peppino, insieme ai miei amici, gli ho raccontato di aver portato in scena Natale in casa Cupiello, opera del fratello. E lui iniziò a spiegarci che molte battute le aveva scritte lui.
I due De Filippo non si amavano.
Appunto, lo stupore era questo: un monumento, oramai un uomo anziano, che perdeva del tempo con degli adolescenti per parlare male del fratello.
Ed Eduardo?
L’ho visto recitare più volte, anche testi di Pirandello: lo guardavo e la sua sola presenza sul palco riempiva lo spazio; (torna a prima) comunque sono felice dei complimenti di chi con Eduardo ha lavorato.
Tra gli interpreti del film c’è uno stupefacente Biagio Izzo.
Lui conferma un dato: gli attori comici possono essere straordinari in assoluto; (pausa) non lo conoscevo e non ci avevo mai lavorato, ma in un ambiente ristretto di professionisti circola da sempre la voce di quanto sia bravo; poi l’ho visto in un ruolo drammatico in un film di Capuano: stupendo; (pausa) sono felice che il pubblico lo abbia scoperto sotto questa nuova luce, ed è la bellezza del cinema: quella di recuperare e poi di scoprire le sfaccettature inaspettate di un attore.
La sua storia in cosa coincide con quella dei De Filippo?
Per fortuna non ho avuto una famiglia difficile, però sono un artista arrivato dalla provincia, senza alcun appoggio economico alle spalle: quello che ho realizzato è stato grazie alle mie gambe e alle persone incontrate; (pausa) anche la mia storia narra di quanto conta la voglia di raccontare e di lottare.
Con l’happy end…
Quando ero ragazzino giudicavo il “lieto fine” con del sospetto; oggi lo ritengo un atto di coraggio, perché sottintende anche l’indicazione di una strada, mentre il finale sospeso o in negativo nasconde una vigliaccheria; abbiamo bisogno di gente visionaria che sia in grado di immaginare un futuro possibile; (pausa) nel piccolo questo film ti dice che puoi essere figlio di nessuno, ma se ti rimbocchi le maniche, hai le palle, puoi ribaltare il destino.
Quando ha creduto di avere le palle?
Mai. Perché nel momento in cui te lo dici poi vai al mare e smetti di lavorare.
Quindi?
La condanna di chi fa il mio mestiere è quello di operare sulla fragilità, sul pericolo, sulla precarietà.
Ha mai pensato di mollare?
Ci sono stati momenti di scoramento, anche da adulto, ma in definitiva non ho mai avuto l’istinto di lasciare; (sorride) in realtà non saprei di cosa occuparmi, non ho un hobby, non ho una passione o un’attitudine.
Neanche un hobby?
È il mio lavoro.
Neppure da ragazzo?
Allora pensavo di diventare un tastierista rock e mi ero attrezzato con tanto di capelli ossigenati, mentre il teatro mi sembrava roba da vecchi, una rottura di scatole, soprattutto perché era la passione di mio padre ferroviere con tanto di compagnia amatoriale filodrammatica.
Che fine ha fatto la carriera rock?
Sono entrato in un locale e ho visto la mia band impegnata con un altro tastierista. Da lì ho accettato l’invito di mio padre a far parte della compagnia e, quando a 15 anni sono salito sul palco, ho percepito il rapporto con il pubblico e ho capito.
Secondo Alessandro D’Alatri l’applauso è la droga più potente del mondo.
È vero e per il comico l’altra droga è la risata, il boato; (cambia tono) il teatro cura l’io: è una gratificazione immediata che ti sostiene.
È anche un’esposizione dell’io.
Devi essere strutturato; quando sento parlare della “valigia dell’attore” credo sia un enorme fraintendimento.
Traduciamo.
Spesso la intendono come una serie di abiti, di maschere, di personaggi che l’attore metaforicamente si porta dietro; mentre l’artista si deve spogliare, deve mettere in scena la sua nudità.
È il suo amico Haber a cantare “La valigia dell’attore”.
Eppure lui mette in scena la sua nudità e in maniera splendida; (pausa) quando l’artista ha il coraggio e la forza di apparire nudo davanti al pubblico, poi è lo stesso pubblico a capirlo e a far partire l’applauso.
Suo padre, quello di Gennaro Nunziante e di Marisa Laurito sono tutti ferrovieri.
Non lo sapevo; anche Domenico Starnone è figlio di un ferroviere-pittore, proprio come mio padre; quando con Domenico abbiamo vissuto insieme, abbiamo parlato di questi uomini con un doppio lavoro, una doppia vita e le inevitabili frustrazioni: persone con dentro un animo artistico ma costrette a portare a casa uno stipendio.
In carriera chi le ha mai detto “sei un cane”?
Più frequentemente? Io.
E…
Quello dell’attore è un mestiere che espone e poter mettere d’accordo tutti è un obiettivo illusorio e non centrale.
Cioè?
Si fa veramente centro quando si è un po’ divisivi, quando si crea una dialettica.
Questa volta le è andata male: non ci sono molte critiche ai De Filippo…
(sorride) In qualche modo è vero.
Eduardo ha la fama di artista rigoroso in teatro. Lei lo è?
Molto e non rispondo con il sottotesto “quanto sono bravo”, perché nella capacità spregiudicata di non esserlo si può nascondere la naturalezza, mentre nel rigore ci può essere l’insicurezza.
Il suo amico Depardieu non è rigoroso…
Ho recitato in un film dove c’erano lui e Polanski (Una pura formalità) e Roman era perfetto dal trentesimo ciak in poi, mentre con Gérard erano buone le prime due: è stato fantastico assistere a due approcci così differenti al lavoro.
Come cambia il suo approccio al set da attore o da regista?
Il mestiere dell’attore ha a che fare con la giovinezza: qualcuno la mattina ti viene a prendere, ti porta sul posto, ti dicono quello che devi fare, poi la sera ti portano a casa e quando va bene ti consegnano pure un assegno.
Quindi?
È un mestiere legato alla irresponsabilità e tutto ciò ha un prezzo perché si lavora al buio, ci si affida agli altri; per me è come andare al mare, in vacanza, per questo cerco di non gravare mai sui registi.
Si rischia di non crescere.
E di diventare un attore fantastico ma con una vita terribile; è un lavoro usurante, è necessario scavare dentro se stessi, empatizzare, non giudicare mai il proprio personaggio, vivere mille vite fino a subire problemi d’identità; (pausa) allo stesso tempo si affronta questa esistenza proprio per compensare la propria identità.
Mentre da regista.
È pura responsabilità.
Secondo Mimmo Calopresti confrontarsi con lei non è semplice.
(Sorride) Io spero lo sia.
Quello di Calopresti è un complimento.
Sì, ma quando ero ragazzo il mio doppio binario, attore e regista, temevo mi creasse dei problemi con i film degli altri, temevo non mi chiamassero nel timore che potessi rompere le scatole sulla regia.
Giovanni Veronesi sostiene che lei è perfetto di profilo e non va mai inquadrato frontalmente.
(Ride) Perché sono spigoloso ed è probabile che ha ragione, mentre Salvatores mi ha reso bene pure davanti.
Golino la definisce pericoloso.
(Balbetta e prende tempo) Mi lascio molto cavalcare dalle passioni e in queste cavalcate cerco di coinvolgere le persone.
Nella capsula del tempo cosa ci mette per raccontare Sergio Rubini?
Tutti i miei lavori.
Così non è più una capsula ma un Tir.
Allora ci inserisco i ricordi, la famiglia, la mia compagna e le persone che mi hanno formato.
Chi?
Fellini, Salvatores e Depardieu; maestri che sono entrati nella mia vita con l’atteggiamento del compagno di banco a scuola; (pausa) Fellini era un genio con la voglia di giocare.
Che succede a Depardieu?
Torniamo al concetto di un mestiere difficile, poi Gérard negli ultimi anni ha perso il figlio…
Lei chi è?
Più o meno quello che faccio; non ho figli, scrivo con la mia compagna e sono il prodotto di tanti incontri, ambizioni, sogni e frustrazioni. Sono uno che crede di doversi ancora impegnare molto perché il meglio deve ancora arrivare.