il Giornale, 9 gennaio 2022
Al Mart una mostra di Arturo Nathan
Il Giorno della Memoria si celebra, al Mart di Rovereto, con una mostra di Arturo Nathan, il grande pittore triestino, amico di Leonor Fini, di Italo Svevo, di Gillo Dorfles, asceta nella sua solitaria ricerca, e morto in un campo di concentramento in Germania nel 1944.
Non esiste nella pittura del Novecento un artista più drammaticamente vero di Arturo Nathan. La sua esperienza di solitudine è romantica e eroica, e indica la sfida dell’uomo alla natura, tanto più forte, non limitata dal destino individuale, ma eterna, ben oltre il tempo della nostra vita. Nathan porta nella pittura il sentimento potente e invincibile di inadeguatezza espresso in poesia da Carlo Michelstaedter, il poeta goriziano morto suicida nel 1910: «Onda per onda batte sullo scoglio/ – passan le vele bianche all’orizzonte;/ monta rimonta, or dolce or tempestosa/ l’agitata marea senza riposo./ Ma onda e sole e vento e vele e scogli,/ questa è la terra, quello l’orizzonte/ del mar lontano, il mar senza confini./ Non è il libero mare senza sponde,/ il mare dove l’onda non arriva,/ il mare che da sé genera il vento,/ manda la luce e in seno la riprende,/ il mar che di sua vita mille vite/ suscita e cresce in una sola vita./ Ahi, non c’è mare cui presso o lontano/ varia sponda non gravi, e vario vento/ non tolga dalla solitaria pace,/ mare non è che non sia un dei mari./ Anche il mare è un deserto senza vita,/ arido triste fermo affaticato./ Ed il giro dei giorni e delle lune,/ il variar dei venti e delle coste,/ il vario giogo sì lo lega e premie/ – il mar che non è mare s’anche è mare./ Ritrova il vento l’onda affaticata,/ e la mia chiglia solca il vecchio solco./ E se fra il vento e il mare la mia mano/ regge il timone e dirizza la vela,/ non è più la mia mano che la mano/ di quel vento e quell’onda che non posa.../ Ché senza posa come batte l’onda/ ché senza posa come vola il nembo,/ sì la travaglia l’anima solitaria/ a varcar nuove onde, e senza fine/ nuovi confini sotto nuove stelle/ fingere all’occhio fisso all’orizzonte,/ dove per tramontar pur sorga il sole./ Al mio sole, al mio mar per queste strade/ della terra o del mar mi volgo invano,/ vana è la pena e vana la speranza,/ tutta è la vita arida e deserta,/ finché in un punto si raccolga in porto,/ di sé stessa in un punto faccia fiamma».
Scritta a Pirano, nell’agosto 1910, la poesia di Michelstaedter manifesta nel rapporto con il mare la rassegnazione e la sconfitta, perché «vana è la pena e vana la speranza». In Nathan l’uomo è solitario testimone di un mondo senza l’uomo, dopo la fine di tutto. Relitti, frammenti archeologici, architetture in rovina, cavalli stramazzati, velieri abbandonati, come dopo il Giudizio Universale. Solitudine e rovina dell’uomo, cui Nathan assiste come un sopravvissuto, sotto cieli nuvolosi e minacciosi.
Nathan è uno dei rari pittori che conosce, fino alla dissoluzione di sé, il sublime. Nella concezione di Edmond Burke, è sublime «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore»; il sublime può anche essere «l’orrendo che affascina» (delightful horror). La natura, nei suoi aspetti più terrificanti come mari burrascosi, deserti, desolazioni, è la prima fonte del Sublime perché «produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire», un’emozione negativa, non derivata dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza incolmabile che separa l’inadeguatezza dell’uomo dalla immensità della natura.
Nathan lo illustra con uno struggimento incontenibile, in un rumoroso silenzio, con l’evidenza di un presagio del suo stesso destino. Ne descrive l’umanità e la solitudine, con incomparabile precisione, Giorgio de Chirico, artista esigente e difficile, che ne fu amico: «Era un uomo intelligente, mite, giusto e buono ed è stato assassinato dai tedeschi perché era ebreo. Lavorava tutto il giorno in una società d’assicurazione, a Trieste, per mantenere la sua vecchia mamma e la sera stava per lunghe ore a disegnare ed a dipingere, o a leggere libri di filosofia e di poesia, sempre assorto in un sogno ideale di pensiero superiore e di creazione d’arte. Poi vennero le ignobili leggi razziali e principiarono i suoi affanni e le sue sofferenze e finalmente è morto in uno di quei campi di concentramento tedeschi ove si sfogava il sadismo dei discendenti di Teutobochus. Due volte lo incontrai. La prima volta nel 1925. Io mi trovavo a Roma ed egli venne a Roma per conoscermi. Lo ospitai in un piccolo quartiere ove abitavo con mia madre in piazza Caprera e si visse insieme alcuni giorni di amicizia nietzcheana. La seconda volta fu a Milano nel 1930. Io ero venuto da Parigi per una mostra personale e lui venne da Trieste per vedere la mia mostra. Di giorno essendo io occupato, non potevo stare con lui, ma la sera si cenava insieme e poi, fino a tardi nella notte, si passeggiava per le vie della città lombarda. Ricordo una notte, era maggio e c’era la luna e lo condussi a vedere il monumento equestre di Missori e gli parlai a lungo della metafisica che acquistano i monumenti e le statue, in mezzo alle pubbliche piazze, quando sono posti su zoccoli bassi di modo che sembra partecipino alla vita della città, e gli dissi che anche Schopenhauer consigliava ai suoi contemporanei di non mettere le statue su zoccoli molto alti ma invece su zoccoli bassi ed aggiungeva: come si fa in Italia. Gli parlavo ed egli mi ascoltava, tutto attento e pieno di entusiasmo represso. Quell’uomo così puro ed innocente è stato ora vigliaccamente assassinato dai carnefici nazisti, da quei mostri-fantasmi che, come dice Kessel, hanno gli occhi glauchi e murati ed il colorito minerale».
La pittura di Nathan è metafisica in senso diverso da quello del primo de Chirico, con il quale condivide l’ascendenza romantica. Nathan contrappone l’uomo e la natura, il limite della nostra vita e l’infinità della natura. L’uomo contempla il mare con una nostalgia del tempo, della storia e del mito che lo hanno attraversato e hanno lasciato rovine di civiltà perdute. Ma l’anima dell’uomo non ha confini, non conosce limiti, non ha paure. Per questo le vedute di Nathan sono titaniche e apocalittiche; e ci trasmettono uno struggimento incontenibile. Alla fine di tutto la coscienza dell’uomo sopravvive, e si manifesta in contemplazione di ciò che resta. Il destino individuale è contingente, e perfino prevedibile, ma importa ciò che resta di noi dopo la fine.
Come trascinato in un abisso, Nathan fu prima inviato al confino a Offida, poi a Falerone dove fu arrestato. Quindi fu internato nel settembre 1943 nel campo di prigionia di Carpi e l’anno seguente deportato in Germania, prima nel campo di concentramento di Bergen-Belsen poi in quello di Biberach an der Riss, dove morì il 25 novembre 1944.