Il Messaggero, 9 gennaio 2022
François Ozon resiste allo streaming
Una storia vera e un dilemma morale, il rapporto di un padre con le figlie e una scelta destinata a far discutere: esce in sala il 13 gennaio (con Academy Two) È andato tutto bene, il nuovo film di François Ozon applaudito a Cannes, ispirato al romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim (Einaudi), magnificamente interpretato da Sophie Marceau e André Dussolier. Il regista francese, 54, è bravissimo a cambiare registro e ispirazione: dopo Estate ’85 sugli amori dell’adolescenza, affronta ora la vicenda della scrittrice che, con l’appoggio della sorella, aiutò il padre reso invalido da un ictus a ricorrere al suicidio assistito in Svizzera. Malgrado il tema ultra-drammatico, il film ha un tono leggero che a tratti sfiora la commedia. «Esplora le domande universali sulla morte ma non è un’opera di denuncia e non cavalca il dibattito pro-eutanasia», chiarisce Ozon collegato da Parigi.
Cosa l’ha spinta allora a realizzare il film?
«Me l’aveva proposto la stessa Bernheim qualche anno fa ma io, pur avendo adorato il romanzo, non mi sentivo pronto a tuffarmi nella sua storia. E quando nel 2017 la scrittrice è morta di cancro, per sentirmela ancora accanto ho iniziato la sceneggiatura».
Che accoglienza ha ricevuto il film in Francia?
«Dopo il successo di Cannes, in sala non è andato come prevedevo. Forse il pubblico, reduce dalla pandemia, non ne poteva più di malattie, ospedali, morte e cercava l’intrattenimento. Ma chi ha visto il film ne ha apprezzato il tono leggero e ha capito che parla soprattutto dei rapporti all’interno di una famiglia».
Questa storia ha cambiato le sue idee sul fine vita?
«Mi sono ancor più convinto che non è giusto scaricare il peso della decisione sulle famiglie. Dovrebbe essere la legge a regolare il problema. L’80 per cento della gente è favorevole al diritto di scelta ma sia in Francia sia in Italia, due vecchi paesi cattolici, il potere della religione è così forte da mettere paura ai politici».
Lei ricorrerebbe al suicidio assistito?
«Sì, se sapessi di non avere speranze. Lascerei tutto organizzato, insomma metterei in scena preventivamente la mia stessa morte (sorride, ndr)».
La pandemia sta cambiando il cinema?
«La gente oggi cerca storie rassicuranti, d’evasione come i supereroi. E si serve al supermercato delle piattaforme. Ma è uno scenario angosciante per chi, come me, fa i film per la sala e intende resistere allo streaming».
E cosa pensa dei registi che lavorano per le piattaforme?
«Mi domando se Jane Campion, Alfonso Cuaròn, Martin Scorsese, Paolo Sorrentino avessero bisogno dei soldi di Netflix per lavorare. Hanno firmato un patto col diavolo».
Addirittura?
«Ha capito bene, per le sale le piattaforme rappresentano il diavolo. Ma se finiranno per prendersi tutto lo spazio, quel patto sarò obbligato a firmarlo anch’io».
È contento di 7 donne e un mistero, il remake italiano del suo cult 8 donne e un mistero?
«Non ho visto il film ma non posso evitare di domandarmi dov’è finita l’ottava donna, la governante di colore, e perché sono sparite le canzoni. Quando uscì in Italia la versione originale volevo che le protagoniste fossero doppiate da superstar come Sofia Loren e Gina Lollobrigida. Ma i distributori mi presero per pazzo».
Qual è il successo di cui va più fiero?
«Sotto la sabbia, il mio film più difficile perché non ci credeva nessuno: per i produttori Charlotte Rampling era un’attrice sorpassata. Invece fu un trionfo mondiale. Charlotte è anche nel cast di È andato tutto bene e sul set ci ha regalato un momento esilarante».
Ce lo racconta?
«Un giorno si staccò la protesi in silicone che Dussolier incollava sulla bocca per simulare le conseguenze dell’ictus. All’attore, che non sopportava quell’appendice, Charlotte replicò: ci sono tante donne che pagherebbero per avere queste labbra».
Il suo prossimo film?
«Peter von Kant, dalla pièce di Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant. Ma ho cambiato sesso alla protagonista: ora è un uomo».