la Repubblica, 9 gennaio 2022
Calvino, l’ambientalista
La casa è Villa Meridiana. Ci si arriva salendo per una stradina laterale che costeggia via Alessandro Volta, appena fuori dal centro. Sotto c’è la Sanremo cosmopolita dei viaggiatori russi, dell’Hôtel des Anglais, del casinò. Dietro, però, il mondo è un altro; e basta uscire dalla porticina che dà sul beudo per ritrovarsi in campagna, dove le lingue che si sentono non sono più quelle dei turisti e nemmeno l’italiano di chi li accoglie, ma altre: il dialetto dei contadini liguri, gli schiocchi e i frulli di chi va a caccia, e il “latino assurdo dei botanici” con cui chi vive qui pensa le sue piante. Ma più che lingue, si sentono soprattutto voci: le voci del gerbido, quest’intermezzo selvatico tra il bosco e il borgo agricolo. Voci di volpi, rane, uccelli. E poi c’è il vento, che tira forte da queste parti.
Le radici: a Villa Meridiana ce ne sono tante. Alcune sono sottoterra o in vasi di terracotta. Ogni pianta ha un nome ed è catalogata, studiata, curata. Non potrebbe essere altrimenti: siamo in una Stazione di Floricultura Sperimentale. Ed eccole, le altre radici: si chiamano Mario Calvino ed Eva Mameli, e sono due scienziati. Un percorso nell’ecologia di Calvino non può che partire da qui: dalla sua casa e dalle sue radici. La chiamiamo ecologia, perché l’ecologia oltre a essere una scienza è anche questo: un parlare ( logos ) della casa ( oikos ). Le radici sono importanti, in quest’ecologia. Villa Meridiana allora è fondamentale, perché è casa di umani e di piante, di saperi e di storie.
Il barone rampante è parte di quest’ecologia, di questo parlare di casa. È, si sa, la storia di un ragazzo, Cosimo Piovasco di Rondò, che abbandona la terra come atto di protesta verso una cena a base di lumache. Trascorrerà tutta la vita sugli alberi, facendo esperienze di tutti i tipi: amori, avventure, battute di caccia insieme al suo cane bassotto, libri e studi, una burbera follia senile e un finale che lo vede scomparire nei cieli della sua Ombrosa a bordo di una mongolfiera. Molto si è scritto sul Barone rampante, libro felicissimo per il modo in cui l’autore – ha 34 anni – riesce a rendere la complessità storica, scientifica e filosofica di un contenuto effervescente e imprevedibile. Lo si legge come una fiaba, lo si interpreta come una reazione di Calvino- Cosimo all’“Ancien Régime” del Pci, colpevole di aver appoggiato la violenza dell’Urss contro gli studenti ungheresi; o come l’utopia di un ragazzo che rifiuta di mettere i piedi per terra e intanto coltiva la radicalità di un progetto politico che includa alberi, animali domestici e selvatici, e tutti gli umani. Il barone è tutto questo, ma non è solo questo. Calvino lo scrive in due mesi e mezzo, tra il 1956 e il 1957, in un periodo in cui sta scrivendo
La speculazione edilizia : un’altra opera “ambientalista” e cautamente autobiografica in cui parla della devastazione del paesaggio di una cittadina ligure non nominata (ma è Sanremo) per mano di una classe di nuovi speculatori che include addirittura intellettuali ed ex-partigiani.
Benché così diversi, Il barone rampante e La speculazione edilizia si parlano. E parlano di un territorio. Si parlano: Il barone parla alla Speculazione da un altro tempo, il ’700 dei Lumi e di Napoleone. E le parla dall’alto di una foresta, localizzata nella tenuta immaginaria di Ombrosa, Ponente Ligure, mentre in realtà abbraccia un’Europa fatta di alberi, continente radicale per definizione. La speculazione edilizia, due secoli dopo, l’ascolta da terra: un suolo dove i superstiti tra quegli alberi faticano a non farsi intrappolare dal cemento. Che cosa dice Il barone alla Speculazione ? In un certo senso, le racconta la sua preistoria: le racconta di com’era prima, questo paesaggio. Quando comincia la storia, nel 1767, il territorio era ricco di vegetazione, ma già in declino. In passato era diverso: pare che «una scimmia che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna senza mai toccare terra». Ora però queste contrade non si riconoscono più: «S’è cominciato quando vennero i francesi a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti». Quest’“universo di linfa” scompare sotto “la furia della scure” alla fine del libro, quando in Europa c’è la Restaurazione e Cosimo, vecchio e malandato, scompare con la mongolfiera.
Il mutamento di questo paesaggio non è solo letterario. In tutta Italia dalla seconda metà del ’700 il ritmo dei disboscamenti prende una decisa accelerazione. I boschi sono nel circuito del capitale: per navi, costruzioni, riscaldamento e vari usi protoindustriali. Anche in Liguria, i cui boschi erano da secoli riserva di legname per le flotte genovesi, la necessità di nuove strade e colture, l’abbandono di aree già sfruttate o anche il semplice taglio per benefici immediati portano a cambiamenti profondi. Il rischio idrogeologico di oggi comincia anche qui. In questa Liguria però Cosimo si fa paladino di soccorsi, di alleanze: sa come potare, fonda e mantiene società di mutuo soccorso per la prevenzione e lo spegnimento degli incendi, e quando va a caccia insieme al suo cane bassotto Ottimo Massimo sta bene attento a non provocare danni. La cura e il sapere degli alberi sono per lui un progetto politico radicale e repubblicano: la cosa pubblica che lui auspica appartiene a tutti i viventi, senza distinzioni di genere, età, e soprattutto di specie. Perché la natura di Cosimo (e di Calvino) non è una cosa muta. Anzi, nel Barone la sentiamo parlare, e fischiare, gracchiare, muggire, uggiolare, squittire. La sentiamo articolare se stessa come un unico grande linguaggio: il linguaggio del bosco. Di questo linguaggio Cosimo si fa non solo interprete ma parlante. Lui lo capisce e lo pratica.
Del resto, che le foreste pensino, parlino, non è poi un’idea così bizzarra: da anni studi di neurofisiologia vegetale e biosemiotica ci mostrano che le piante sono nodi di una rete di comunicazione che avviene sottoterra, nei legami simbiotici che le radici formano con le micorrize. Gli alberi “strategizzano”: si associano, si organizzano. Ciò fa del bosco l’espressione di una mente, di un pensiero, in cui le idee sono viventi. Ogni albero, filo d’erba, insetto, animale, è un “self” in questa struttura comunicativa ed è portatore d’interesse e informazione. Questo risuona anche nella solidarietà di Cosimo per gli altri esseri: a partire dalle lumache (torturate dalla sadica sorella Battista) che si rifiuta di mangiare. Anche per questo, Il barone non è un libro solo d’avventure ma anche un libro d’amore nelle varie sue forme: amore per una donna con il nome di un fiore, Viola; amore filosofico per le idee di illuministiche; e politico, per il progetto di una Repubblica che sia di tutti, senza distinzioni. Cosimo, insomma, vive di fertilizzazioni incrociate, ama e si coniuga con il mondo. Infine, quello di Cosimo è anche il sogno d’un’evoluzione diversa, alternativa: quella di esseri umani che non sono mai scesi dagli alberi, eppure hanno sviluppato la loro cultura, il loro pensiero insieme agli alberi. Cosimo, cioè, fa rivivere il Pleistocene sugli alberi di Ombrosa, la società di cacciatori-raccoglitori in cui si sono formate alleanze (per esempio, con il cane), e in cui si è cominciato a popolare il paesaggio di storie e siamo diventati esseri narrativi. Insomma, ci sono tanti i modi di leggere Il barone rampante. Allo stesso tempo, però, l’efflorescenza della fantasia di Calvino si scatena in un paesaggio vero, storicamente ed ecologicamente. E in questo paesaggio Calvino prova a immaginare rami e genealogie di un’evoluzione possibile, che dipende dalla terra in tutto e per tutto, ma che alla fine fa volare l’ humus verso il cielo, aggrappato alla fune di una mongolfiera, in un universo che è cosmos : Cosimo, appunto.