la Repubblica, 9 gennaio 2022
Djokovic, il suicidio mediatico di un campione
Novak Djokovic è un uomo e un atleta con una storia straordinaria. Questo l’ha reso attraente: «Da quando sono famoso sembro molto più bello», disse in un programma televisivo americano. Conosce (e pratica) il sacrificio e la fede. Ci aggiunge il dono dell’ironia.
L’unica volta in cui lo incontrai, a Londra, nel 2012, essendo l’anno delle Olimpiadi subito dopo Wimbledon, gli chiesi quale dei due tornei avrebbe preferito vincere. Mi aspettavo rispondesse: tutt’e due. Invece: «Il momento più bello sarà comunque la paura tra l’uno e l’altro». Così parla chi flirta con il disastro, chi ha evitato una rovina, ma cerca una ragione per ritrovarla. Il fascino irresistibile dell’autodistruzione. Una bomba a orologeria all’unisono con il cuore.
Rintocco dopo rintocco è arrivata l’ora in cui Djokovic può finalmente dedicarsi a un’opera di character suicide, suicidio del proprio personaggio pubblico, senza attendere che qualcuno venga a farlo fuori ( character assassination).
Legittimo, liberatorio, a suo modo grandioso. Almeno quanto sproporzionato e in parte ridicolo.
Rinchiuso in una stanza d’hotel per rifugiati aspetta un giudizio erigendosi a paladino più che vittima e, in caso gli sia contrario, a martire più che sconfitto. Si è infilato una maglietta superiore alla sua taglia, attribuito un ruolo più grande di lui, in una partita che non dovrebbe esistere. Il padre l’ha accostato a Spartaco e a Gesù, ma non è questo il tempo di palleggiare con le iperboli. Già si sentono paragoni infami tra libretti verdi e stelle gialle, ci manca avvicinare Novak Djokovic a Rosa Parks.
Non è il “rivoltoso sconosciuto”, l’uomo con due borse fermo davanti ai carri armati in piazza Tienammen. È un tennista famoso che sta prendendosi gioco delle regole. La sua sola attenuante è la loro mancanza di chiarezza.
La certezza del diritto è un requisito fondamentale per la sua applicazione e in questo momento non ha patria. Le autorità del calcio italiano hanno stabilito la “quarantena soft”, la “quarantena ammorbidita”, poi tre calciatori in quarantena hanno dribblato l’una e l’altra e sono scesi in campo. Le autorità del tennis australiano non sono state più nitide.
Applicano con rigore ottuso norme non trasparenti e pazienza se valesse soltanto per tornei sportivi.
Ma Djokovic come ha giocato la sua partita? È un paradosso diffuso quello per cui: “Che importanza ha se combatto per la causa sbagliata, dato che sono in buona fede? E che importanza ha se sono in malafede, dato che combatto per la causa giusta?”. Il rischio è che il campione serbo stia sostenendo in malafede una causa che alla legge e alla maggioranza appare sbagliata.
Partendo dall’ultimo sviluppo, ha affermato di aver diritto all’esenzione dall’obbligo vaccinale e quindi al libero ingresso nel Paese dove si disputa il torneo, perché aveva contratto il Covid a metà dicembre. Un uomo che vive in diretta social non l’aveva però mai annunciato, a differenza della prima occasione in cui era stato contagiato. In compenso, esistono molte immagini di sue apparizioni pubbliche in quelle date e nei giorni in cui avrebbe dovuto essere isolato (come si trova ora, per contrappasso). O ha violato una norma a casa sua o un’altra in una trasferta illegittima, non c’è una terza possibilità. Salvo sostenere, come i fedifraghi più inossidabili: “Guarda come mi assomiglia il tizio in quella foto a Belgrado!”. Ma una pandemia non è una commedia cinematografica.
Il primo impulso del sorriso per i bracci al silicone, i certificati farlocchi, il complottismo da telegrafo senza fili si spegne nell’amarezza degli esiti che ci toccano. A tutti quanti, direttamente o indirettamente.
È troppo pretendere che i campioni sportivi siano dei modelli di vita. Se ci riescono, grazie. Sennò, pecchino a casa loro. Maradona ha fatto danni principalmente a se stesso. Nel suicidio del suo personaggio Djokovic rischia di diventare come il guru di una setta che conduce i seguaci a una fine contrabbandata per nuovo e luminoso inizio. Avere avuto un enorme talento significa già aver ricevuto un dono, è essere di per sé speciali. Non occorre che il mondo intorno elevi questa condizione al quadrato riservando ulteriori privilegi. Per legge di natura anche i geni possono sbagliare e di certo invecchiano, dimenticano, muoiono invocando la mamma o la divinità che avevano sempre negato.
Per legge umana la convivenza è affidata alle norme che, pur nella confusione, ci diamo attraverso le persone che incarichiamo di farlo. C’è un giudice a Sydney. Se domani dovesse dare ragione a Djokovic l’accetteremo. E questa è la regola del gioco.