La Stampa, 9 gennaio 2022
Intervista a Niccolò Ammaniti
Niccolò Ammaniti ha scritto sette romanzi, tutti o quasi tutti a distanza di molti anni gli uni dagli altri: tutti o quasi tutti contengono il passo ulteriore del tempo che attraversano. A otto anni dal precedente, Anna, l’anno prossimo uscirà La vita intima, per Einaudi Stile Libero: «Se tutto va come deve andare», dice alla Stampa.
Le sue sono storie di vigilia: le scrive quando c’è nell’aria qualcosa di nuovo, qualcosa di più, e le ambienta sottoterra, nei fossi, negli scantinati, in tutti i posti dove qualcuno nasconde e qualcun altro trova. Ha una specie di claustrofilia.
Nell’antologia della Gioventù Cannibale (Einaudi Stile Libero, 1996), quella che battezzò il gruppo degli “scrittori cannibali” degli anni Novanta, quando era poco più che un esordiente, raccontò storie incredibilmente simili a quelle che, pochi anni dopo, ci ritrovammo in cronaca: le violenze di gruppo tra adolescenti, le bestie di Satana, Novi Ligure. In Anna (Einaudi, 2015) una pandemia, la Rossa, uccide tutti gli adulti. Ne è stata tratta una serie tv trasmessa l’anno scorso e girata, in parte, mentre si diffondeva il Covid.
È stato uno scrittore generazionale, uno “scrittore giovane”, ma ha saputo non restare invischiato nel recinto che quell’etichetta costruisce intorno a un autore – Pier Vittorio Tondelli, che scrisse di ragazzi da ragazzo, diceva con amarezza che sarebbe stato ricordato come un autore minore. A salvaguardarsi da questo, probabilmente, lo ha aiutato il cinema: la maggior parte dei suoi libri sono diventati film (due di Gabriele Salvatores e uno di Bernardo Bertolucci); ha fatto e fa lo sceneggiatore.
Una volta ha detto che scrivere la divertiva. Davvero?
«Valeva, forse, prima. Ora non mi diverto più come un tempo perché il divertimento è legato alla seduzione, quindi anche al rapporto con gli altri. Da due anni viviamo come anacoreti che costruiscono la propria memoria in solitudine, concentrati quasi soltanto su di sé: è una condizione nella quale è quasi impossibile considerare gli altri. La frenesia che prima mi veniva dal voler sedurre i lettori a tutti i costi, poi, è scemata da prima e questo ha cambiato la mia relazione con la scrittura, che è diventata un fatto quotidiano, intimo, di grande riflessione. Certo, è successo dopo molti anni di stacco, durante i quali ho fatto un altro lavoro».
Com’è fare il cinema?
«Richiede una scrittura di servizio: devi rendere visibile, detto e agito tutto, anche i passaggi psicologici. È una traduzione affascinante. Tornare al romanzo, però, mi dà un grande piacere: finalmente posso far pensare i miei personaggi senza necessariamente farli esprimere con il corpo o con le parole. Ho sempre scritto libri di trama, stavolta no: nel nuovo romanzo succederà poco, si penserà parecchio di più. Come è, del resto, nella vita di tutti, adesso».
Che succede quando si affidano le proprie idee a un gruppo di persone che le devono realizzare?
«Succede che hai paura. Io, almeno, ne ho avuta sempre molta: più di ogni altra cosa, temevo che mi togliessero la mia storia. Poi, però, sono entrato in confidenza con i miei collaboratori e mi sono ritrovato il più delle volte a stupirmi di quello che aggiungevano al mio lavoro, ho imparato a fidarmi. Il segreto fondamentale è saperti far seguire in un territorio poco conosciuto: il costumista, lo scenografo, l’attore hanno un’idea parziale di quello che vuoi fare tu, quindi devono credere nel tuo progetto e in te. Per questo, devi essere soprattutto capace di condurre con grande sicurezza».
Se il gusto del pubblico si plasma, perché ci si impegna tanto nell’inseguirlo?
«Ho osservato con grande preoccupazione come, dal momento in cui ci siamo ritrovati tutti chiusi in casa, la narrazione cinematografica sia stata orientata quasi esclusivamente al tenerci compagnia, portandoci altrove, di modo da non sentire il peso di quello che ci stava capitando. C’è stata una sovrapproduzione di contenuti e prodotti, non importava se buoni o cattivi, che semplicemente tappavano i buchi, ci facevano l’anestesia. Sulle piattaforme è uscita un sacco di roba di qualità trascurabile, che abbiamo guardato senza tenerci il tempo per metabolizzarla. Era successo, anche se con una velocità diversa, anche alla musica e ai libri, segnandone una semplificazione al ribasso. Nelle storie di questo tempo, in particolare di questi ultimi due anni, ciò che non è rassicurante non ha spazio. Stravince il mainstream perché l’autore viene inghiottito dalle richieste delle piattaforme, dal successo dei trend».
Come ci si può salvare?
«Esistono sistemi di intrattenimento che sono molto più pervasivi di quelli che hanno una narrazione complicata: lo dobbiamo tenere sempre a mente. È un impegno di tutti fare in modo che possano continuare a esistere, richiedendoli, il free jazz e la musica classica contemporanea e tutto ciò che si fa con sempre più fatica perché a chi vuole farlo non viene dato spazio. Penso che, a sostegno delle realtà più underground e delle produzioni più difficili, dovrebbero venire ideate grandi campagne comunicative, anche se poi mi viene il dubbio che si rischierebbe di trasformare le sperimentazioni più spericolate in qualcosa che crei una moda. È un cane che si morde la coda. Né si può contare su un pubblico esigente: se penso che per comprare un libro ci si affida alle recensioni di sconosciuti su internet e non alle critiche sui giornali, capisco che esiste una specie di desiderio di tutti di non andare a fondo».
Cosa le piace di questo tempo?
«Niente, temo».
Cosa rimpiange?
«Nulla che sia legato al passato, alle cose di prima, a una qualche improbabile golden age. È solo che sto invecchiando e non riesco più a stare nell’incertezza: cerco porti sicuri, cerco la serenità acquistata in uno spazio. Mi manca però la disposizione che avevo al rischio, all’improvvisazione. Mi manca avere quell’energia e quella voglia che avevo di mettermi in gioco: sento, invece, come se dovessi continuamente tenere in piedi una cosa che potrebbe franarmi sotto i piedi da un momento all’altro».
Ma non la rilassa un po’ l’idea che, adesso, le battaglie tocchino agli altri e che lei, invece, può semplicemente raccontarle?
«La vecchiaia, in fondo, è la reiterazione di certi stilemi che hai imparato e che sono quelli che ti hanno reso celebre o hanno reso significativo il tuo contributo. Ecco perché i vecchi musicisti, nella maggior parte dei casi, fanno sempre lo stesso disco di quando erano giovani: perché si diventa custodi di un successo passato e lo si ripropone continuamente, in fondo, per paura di morire».
Capita anche a lei?
«Abbastanza. Però poi mi dico che non devo avere fretta, e avere una visione indipendente e che niente mi cambia più la vita e che, soprattutto, ci sono molte altre cose importanti alle quali voglio dedicarmi: gli affetti, le passeggiate, i miei animali».
Quanti animali ha?
«Due cani e i pesci del mio acquario».
Ha esordito con un romanzo, Branchie, che parlava di un venditore di acquari.
«Ho sempre avuto grande passione per gli acquari, perché mi piacciono le ricostruzioni di ecosistemi e mi affascina quello che ho imparato osservandoli: più variabili metti nelle cose e più possibilità di costruzione e mantenimento di un mondo si aprono. La letteratura non funziona così ma il cinema sì, funziona come un acquario e gli acquari hanno bisogno di tante cose diverse: di una certa quantità di ossigeno e di anidride carbonica, di una certa salinità, di una certa esposizione alla luce, di un certo tipo di cibo, di un certo tipo di pesci che siano tutti compatibili. Le variabili producono altre chance: giri un film con persone diversissime con ruoli diversissimi e poi viene fuori qualcosa di unico, intero, unitario. E sorprendente».
La letteratura spiega o racconta?
«Racconta».
E che significa raccontare?
«Raccontare significa mettere le persone nei panni degli altri, infilarsi nelle loro storie. Quando ero adolescente era molto di moda comprare vestiti usati, incluse le scarpe: tutte le volte che lo facevo, mi piaceva moltissimo l’idea di mettere i piedi dove lo aveva fatto qualcun altro. Deve venire da lì l’attenzione che ho per lo spogliarsi per entrare in altro da sé. La letteratura fa questo: non ti spiega le cose ma te le fa vivere, te le fa sentire. Le ragioni e le spiegazioni se le deve dare il lettore, se è in grado di darsele, altrimenti non importa».
Sa bene che, però, che ora si pretende che i libri o i film su qualcosa li faccia chi quel qualcosa lo ha vissuto in prima persona.
«Non è più vero. Mi sembra, anzi, che ci sia una tendenza opposta: tutti possono fare tutto. Guardi le serie Netflix in costume, dove i ruoli sono ribaltati, i neri fanno i bianchi, spesso travisando la storia. A me sta bene, mi diverte, e ne capisco il senso, ma temo anche che mistificare la storia non ci aiuta a raccontarla meglio: semplicemente, ce ne fa raccontare un’altra. Va bene, purché lo si dica: è un’altra storia».
Di cosa ha paura?
«Di dimenticare, di perdere la memoria di ciò che ha avuto significato nella mia vita. Per anni ho avuto nostalgia del passato perché pensavo al futuro con desiderio e voracità, immaginando cosa sarei potuto diventare, poi però ho cominciato a provare nostalgia di quello che mi sono perso e pure a dimenticare quello che non mi sembrava più necessario: è un processo pericoloso».
Ricorda quando ha pianto l’ultima volta?
«No».
Ma c’è stata?
«Ma certo».
Per cosa piange?
«Di solito, succede quando mi faccio male. L’ultima volta forse è stata quando il mio cane è stato morso da una vipera e allora l’ho portato alla clinica veterinaria perché stava male: ho dovuto lasciarlo lì una notte. E abbandonarlo lì, solo, sofferente e gonfio, era per certi versi simile a quello che succedeva in lockdown, ai parenti e ai cari di chi s’ammalava e veniva ricoverato. L’idea di non poter star vicino a qualcuno che soffre e non potergli stringere la mano è la cosa più terrificante che ci sia».
Hanno scritto che nei suoi libri c’è claustrofilia.
«Ho sempre pensato che la chiusura e la clausura dessero grandi spinte creative: la vita reale, che purtroppo è diversa dalla letteratura, mi ha dimostrato che non è così».
Perché dice purtroppo?
«La narrativa si nutre di avventura. Noi da due anni, alla sera, contiamo gli ammalati e i morti». —