La Stampa, 9 gennaio 2022
Un campo di profughi nel nord del Tigray è stato bombardato. La guerra continua
Sì. Abbiamo sbagliato a soffermarci soltanto sul come si sviluppava la guerra civile tra il governo centrale di Addis Abeba e i ribelli tigrini, a cercare sulla carta i fronti con le località perdute o riconquistate, a raccontare chi vinceva o arretrava. A scrivere articoli per chiarire se Lalibela e le sue meraviglie erano in piedi o distrutte. Dovevamo guardare invece dentro la guerra, mischia di tribù furiose e vendicative. Ad ogni costo. Questo era il nostro dovere. In quello che si annuncia come uno dei peggiori massacri del nostro tempo, la geopolitica passa in secondo piano. È la realtà della morte di massa, i massacri dei civili da entrambe le parti in lotta, le incitazioni omicide di un Premio nobel per la pace diventato messianista della vendetta, il primo ministro Abiy Ahmed, che dovevano monopolizzare la nostra attenzione, la morte come male umano irrimediabile, lo sprofondare di un popolo nel silenzio del suo abisso. Anche se nessuno è lì, e fin dall’inizio una spessa coltre di fumo copre il Tigray dove i fatti sono sistematicamente negati, manipolati, deformati, una quantità di episodi confermati da vittime e testimoni attendibili si possono raccontare, uno a uno, come parte di un meccanismo di deliberato annientamento. In Etiopia la distruzione è diventato qualcosa di assoluto, si presenta come mondo.
Sono questi morti che sono delitto e colpa che ci riguardano perché sono ai vivi che si rivolge la loro tragedia imponendo che diventi memoria collettiva. Bisogna guardare negli occhi questo mondo della notte perché non lo copra, come vogliono i burattinai del massacro, l’inudibile, al tempo stesso silenzio e strepito.
Ecco l’ultimo episodio, il bombardamento di un campo di profughi nel nord del Tigray. Sono due milioni, migranti di cui non riesce a occuparsi nessuno, perché i convogli umanitari sono bloccati o saccheggiati dai soldati etiopici o dalle bande della pulizia etnica. Cinquantasei i morti tra cui alcuni bambini, gli ultimi di una nazione mutilata, violata, dissanguata. Chissà se hanno mai saputo che chi ha ordinato di bombardarli e ucciderli è un Premio nobel…
Ci sono le immagini delle vittime raccolte in una scuola della cittadina di Dedebit. Ma non raccontano quello che è accaduto prima. Non c’erano sirene per avvertire la gente nel campo dell’avvicinarsi degli aerei o dei droni venduti dalla Turchia, aiutarli a fuggire, a cercare riparo abbracciando la terra. Il bombardamento è come uno scossa improvvisa che viene dal suolo contro lo stomaco. Poi si alzano le prime grida disperate ma le urla sono lacerate da acuti sibili metallici. Le baracche, le tende del campo si squarciano come per gioco e si sollevano in aria. Zampilli di fumo salgono come funghi. Il bombardamento cessa di colpo. Qualcosa brucia. Ma come se nulla fosse stato il sole splende di nuovo glorioso e il paesaggio attorno è tranquillo e impassibile come se solo il campo fosse stato condannato da una sentenza oscura e crudele. Si raccolgono i morti.
Dedebit non vi diceva niente fino a ieri quando si è macchiata di sangue. Non vi dicono niente Alamata, Korem, Mekni, Milazat, località del sud del Tigray che secondo le testimonianze raccolte dalle Nazioni Unite sono state massacrate dai raid aerei etiopici nell’ultima settimana di dicembre. L’unica cosa certa: i morti sono stati decine.
E poi ci sono i massacri, la pulizia etnica, la caccia all’uomo, la radicalizzazione sanguinaria a cui si dedicano da parte di entrambi i contendenti, etiopici e i loro alleati eritrei e i tigrini. Amnesty e Human Rights hanno raccolto questa geografia punitiva, l’hanno documentata con testimoni, sopravvissuti, urlata alla coscienza internazionale. È seguito un silenzio di cancellerie e opinione pubblica che è la somma algebrica dei nostri egoismi planetari.
A novembre e dicembre le milizie amahra che seguono i regolari come branchi di sciacalli per ripulire in silenzio le aree riconquistate si sono accanite contro la popolazione tigrina delle città di Adebai, Humera e Raywan. Hanno separato nuclei familiari e arrestato anziani, donne e anche minorenni. Poi hanno allontanato dalle città le donne, i bambini, gli anziani e gli ammalati. Alcuni degli sfollati sono riusciti ad arrivare nel Tigray centrale, di altri non si hanno più notizie. I testimoni hanno riferito di alunni portati via dalle scuole, di colonne di camion stipati di persone che lasciavano la città di Humera, di abitanti in fuga dalla città di Adebai attaccati con bastoni e oggetti appuntiti e di altri uccisi con armi da fuoco. Ci sono immagini satellitari di Abedai: gruppi di persone raggruppate in un centro di detenzione, macerie sulle strade, edifici in fiamme.
Ancora. Tra il 28 e il 29 novembre scorso le truppe eritree che appoggiano i soldati di Addis Abeba hanno ucciso centinaia di civili inermi nella città di Axum, aprendo il fuoco nelle strade e massacrando persone casa per casa. Le immagini satellitari hanno individuato fosse comuni accanto a due chiese della città santa. Pochi giorni dopo si doveva celebrare presso santa maria di Sion una grande festa dei cristiani ortodossi.
Ancora un massacro, ma questa vota i colpevoli potrebbero essere i ribelli tigrini: nella città di Mai-Kadra forse centinaia di civili, soprattutto lavoratori giornalieri, sono stati pugnalati o accoltellati a morte. Le truppe etiopiche erano passate all’offensiva e si stavano avvicinando a Mai-kadra. La Polizia speciale del Tigrè ha saldato i conti con gli amhara prima di ritirarsi.
A Gawa Qanda un villaggio della zona di Wellega si sa il numero dei massacrati: 54. Miliziani dell’Esercito di Liberazione Oromo, alleati dei tigrini, dopo il ritiro delle truppe etiopiche, hanno saccheggiato il Paese, ucciso uomini, donne e bambini e distrutto quello che non potevano portare via.