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 2022  gennaio 09 Domenica calendario

Intervista a Michael Walzer

«Io vivo in una bolla liberal e respiro l’aria di Princeton dove vige il primato della legge. Di quel che succede fuori da questo piccolo universo so poco. Mi pare che ci siano milioni di americani che vivono in modo diverso, in un Paese diverso, si abbeverano a fonti di informazioni diverse e sono perlopiù evangelici bianchi. E io di quel mondo non sono mai stato parte». Michael Walzer sceglie la strada dell’ironia e del disincanto quando racconta l’America che dice di non vedere ma che in realtà sa cogliere e descrivere nelle pieghe più nascoste.
Nel giorno in cui Biden affonda i colpi contro le bugie di Trump ricordando lo scempio contro la Costituzione e le istituzioni perpetrato il 6 gennaio del 2021, il filosofo ultraottantenne, coscienza della sinistra liberal americana e animatore di «Dissent», non nasconde la sua preoccupazione per il futuro dell’America. Barricato o meno nel suo studio di Princeton per Walzer «lo stato della democrazia americana è nei guai».
Professore, da dove vengono questi pericoli?
«Nazionalismo e populismo hanno preso il sopravvento negli ambienti della destra. C’è una parte di americani ormai sempre più devoti ai temi e ai toni diffusi dagli estremisti. Come si stessero preparando per un nuovo attacco che non sappiamo cosa sarà e dove e quando avverrà. Si respira un sentimento di disunione, di palpabile spaccatura dentro la società statunitense. E questo è terribile. Ma la cosa peggiore è un’altra».
Quale?
«La volontà e l’impazienza di moltissimi repubblicani di agguantare nuovamente il potere sfruttando proprio il sostegno degli estremisti. Stanno cavalcando una tigre senza rendersene conto. Invece dovrebbero ripudiare quelle frange populiste. Non riesco a credere che Romney e altri cosiddetti moderati del Partito repubblicano debbano per forza avere il sostegno degli estremisti per essere rieletti a Capitol Hill. Sono immagini che mi riportano a un passato lontano, terrificante».
A cosa si riferisce?
«Mi ricorda la debole repubblica di Weimar, i conservatori osservavano Hitler, lo consideravano quasi uno scherzo, un joker. Ma lo supportarono perché quella era la porta per il potere. Avevano torto, visto quanto è successo. E i repubblicani oggi sono così: deboli e per questo pericolosi. Pensano che l’unica strada per avere successo sia affidarsi al blocco dell’estrema destra cristiana e bianca».
Questa è una fetta larga del Paese. Non più dominante a livello demografico ma sempre la più influente. Possiamo definire ancora gli Stati Uniti una nazione unica e indivisibile?
«Gli Stati Uniti sono da sempre stati divisi su base etnica, sociale, religiosa, razziale. Ma ci sono sempre stati, e ben evidenti, dei tratti comuni a unire le diverse identità. La democrazia americana è un continuo tendere al rispetto della Costituzione e delle Istituzioni. Sono valori che trascendono. E questi ora sono messi in discussione. È emerso un sentimento che potremmo definire “sub-nazionale”, parziale, le differenze dominano e alimentano paura e risentimento nei confronti della Nazione».
Biden ha detto che il 6 gennaio deve rappresentare un punto di rinascita. Sono i fatti dello scorso anno il punto di svolta?
«Attenzione a non liquidare il 6 gennaio 2021 come la madre del risentimento e delle divisioni sociali in America. Ci sono responsabilità passate che risalgono anche ai tempi di Obama e della presidenza Clinton con la loro vicinanza al neoliberalismo. Sono gli anni in cui, pur essendoci presidenti di sinistra, c’è stato un arretramento delle politiche di welfare ed è stata imposta l’austerity – secondo criteri neoliberisti – che ha colpito le fasce più deboli della popolazione. La frustrazione di molti statunitensi affonda in quel periodo quando cominciano a diffondersi, come reazione, i germi del populismo e spuntano i demagoghi che oggigiorno sfruttano la rabbia della gente. Di cui il 6 gennaio è l’espressione più inquietante».
All’appello manca il terzo presidente democratico degli ultimi 30 anni, Biden. Che giudizio ne dà a un anno quasi dall’insediamento?
«È sempre stato un centrista eppure è sbarcato alla Casa Bianca con un programma dall’impronta New Deal. È stato in grado di ricreare una coalizione con la “working class” e ha portato con sé a Washington consiglieri liberal. Eppure, fatica, poiché c’è un Congresso che non lo sostiene e ha una Corte suprema ostile, soprattutto sul tema dell’aborto. E poi ha un nemico in casa: la sinistra progressista, quella per intenderci capeggiata da Ocasio-Cortez. Dovrebbe sostenerlo, in fondo Biden ha vinto le elezioni con un programma in stile Sanders, il simbolo dei progressisti Usa. Se non lo sostengono la deputata AOC e gli altri, chi mai dovrebbe schierarsi con Biden?».
Immagina il ritorno in campo di Trump nel 2024?
«Credo che lui voglia candidarsi ma non ho la certezza che riuscirà. Ci sono altri esponenti nel campo repubblicano che hanno la stessa ambizione. Vorrebbero correre per la Casa Bianca con il programma di Trump ma senza le sue assurdità».
Un nome?
«Ron DeSantis, governatore 44enne della Florida». —