Tuttolibri, 8 gennaio 2022
Intervista a Svetlana Aleksievi
Svetlana Aleksievi? è la bielorussa più famosa nel mondo, insieme al dittatore Aleksandr Lukashenko che l’ha costretta a lasciare il suo Paese, e ha cancellato il suo nome dai manuali scolastici di letteratura. Insignita nel 2015 del Nobel per la letteratura «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo», ha creato un genere di letteratura cronachistica in una serie di libri-interviste che raccontano l’Unione Sovietica e il suo collasso. Bompiani ha raccolto tutte le opere di Aleksievi? tradotte in italiano in due volumi, curati da Sergio Rapetti. Il primo, Guerre, in uscita in questi giorni, è composto da La guerra non ha un volto di donna, Gli ultimi testimoni e Ragazzi di zinco, e indaga la Seconda guerra mondiale e quella in Afghanistan. Il secondo volume, Tornare al cuore dell’uomo, racconterà il declino dell’Urss e contiene Preghiera per Cernobyl e Tempo di seconda mano.
Svetlana Aleksandrovna, lei ha dedicato la sua opera letteraria a indagare quella che ha definito “l’epoca dell’uomo rosso”, dominata dall’homo sovieticus. Dopo più di 100 anni dalla origine di questa specie unica, e dopo un anno dall’esplosione delle proteste per la democrazia nel suo Paese, la Bielorussia, crede che sia possibile raccontarne la sua evoluzione in qualcosa di diverso?
«È quello che sto facendo. Sto scrivendo un libro su quella rivoluzione che è iniziata in Bielorussia il 9 agosto 2020, per protesta contro le elezioni falsificate da Aleksandr Lukashenko, e che è tutt’ora in corso. Questa rivoluzione ha segnato la fine dell’"uomo rosso” e ora sto cercando di studiare e capire i suoi figli. Sto incontrando e intervistando chi ha partecipato a quegli eventi, prima in patria e ora dall’estero. Sono stata costretta a lasciare il mio Paese, insieme a tanti altri: nell’ultimo anno se ne sono andati 500 mila bielorussi, una catastrofe umanitaria».
Può dare l’identikit di questa nuova generazione?
«Quelli che sono scesi in piazza hanno in maggioranza dai 19 ai 30 anni, al massimo quaranta. Sono cresciuti in questi ultimi trent’anni dopo la fine dell’Urss, sono una sottile pellicola culturale che si è formata sulla superficie della società post-sovietica, il frutto di un’enorme quantità di lavoro e di studio. Hanno viaggiato, studiato le lingue, assorbito tecnologie e imparato strumenti moderni. Ora sono andati via dalla Bielorussia, i più giovani, i più dinamici e colti, imprenditori, studenti, operatori del settore IT. Lukashenko li sta cacciando e non vuole che tornino: ha già dichiarato che chi ha studiato all’estero dovrebbe rimanere all’estero perché è ormai troppo diverso».
Possiamo raccontare questa rivoluzione anche come uno scontro tra genitori e figli?
«Sì, ed è una tragedia che attraversa le famiglie. Mi ricordo che quando i primi arrestati alle manifestazioni iniziarono a venire rilasciati dall’infame carcere di Okrestino, c’erano amici, parenti, volontari ad accogliere questi ragazzi, che erano stati picchiati e torturati. C’era una ragazza che piangeva, era stata percossa dai poliziotti, e non aveva dove andare, temeva di tornare a casa perché i suoi genitori non avrebbero avuto nessuna comprensione e solidarietà per quello che le era successo. Però non posso definirlo un conflitto generazionale. Ogni settimana scendevano in piazza anche gli anziani, si tenevano le marce dei pensionati. Uno dei partecipanti, un vecchietto molto fragile, mi ha detto: “Mi sento molto in colpa per quel Paese che abbiamo lasciato ai nostri nipoti"».
I media occidentali l’hanno descritta la “rivoluzione delle donne”, una definizione in un certo senso ingiusta rispetto ai tantissimi uomini scesi in piazza. Eppure la protesta in piazza ha avuto, per parafrasare il titolo del suo celebre libro, “un volto di donna”. Come mai?
«È vero che le donne erano state più numerose e visibili nelle strade di Minsk, donne bellissime, eleganti, vestite di bianco e sorridenti. A guardarle veniva spontaneo chiedersi dove fossero i mariti e i fidanzati di queste donne. Una di loro mi ha risposto che suo marito l’ha lasciata andare in piazza da sola perché, ha detto, lui sarebbe sceso col fucile, non con i fiori in mano. Noi tutti credevamo fermamente che dovesse essere una protesta non violenta. Doveva essere pacifica, a tutti i costi. Sapevamo che di fronte al minimo accenno alla violenza il potere non si sarebbe più fermato di fronte a nulla, non avrebbe esitato a trasformare le strade di Minsk in piazza Tiananmen. Nessuno di noi era pronto a guidare la folla in Tiananmen. E il sangue non è stato versato, grazie alle nostre donne».
Oggi questa idea della protesta non violenta viene criticata da molti, in Bielorussia e fuori. Crede che sia stato un errore?
«Noi volevamo sperare che il potere ci avrebbe visti e ascoltati, che sarebbe cambiato tutto. Oggi, il popolo è arrabbiato, ed è molto più pronto alla violenza. Questo mi fa paura, perché Lukashenko è sempre pronto a versare il sangue. Lo abbiamo visto con la crisi dei migranti che ha importato dal Medio Oriente per scagliarli contro il filo spinato alla frontiera con l’Unione Europea. Lui è pronto a tutto, è come Hitler, se il suo popolo non lo vuole più lui è disposto a sacrificare il popolo».
Era lo stesso popolo che lo aveva eletto, e acclamato, per buona parte dei suoi quasi 28 anni al potere. Cosa è cambiato?
«Io avevo dei dubbi, prima che la rivoluzione iniziasse, non ero convinta che quel popolo che io conoscevo ancora come quello dell’"uomo rosso” si sarebbe ribellato. E poi mi sono innamorata del mio popolo. In quei giorni, in piazza, l’ho visto per come era davvero. Anche molti esponenti del governo volevano il cambiamento. Oggi sono stati cacciati, oppure macchiati dal sangue che Lukashenko ha versato, e non possono più tornare indietro. Per questo credo che la prossima volta, quando ricostruiremo il nostro Paese, non sogneremo più un “uomo forte”, non ci sarà più nessun presidente, diventeremo una repubblica parlamentare».
Chi sono quelli che difendono Lukashenko? I poliziotti che torturano e stuprano hanno la stessa età dei manifestanti che lei considera il futuro del Paese.
«In quali gabbie sono stati allevati questi cani rabbiosi? Durante le manifestazioni, i poliziotti venivano tenuti in furgoni, al freddo, con i pannolini, per non farli uscire, non potevano tornare a casa per non sentire i rimproveri della gente, delle loro stesse famiglie. Venivano istigati a odiare: i ragazzi mi hanno raccontato di essere stati picchiati da poliziotti che gli gridavano: “Cosa vuoi ancora dalla vita? Tu in città te la passi bene, non sai nemmeno quanto è dura la vita in campagna”. È un conflitto che ora non è solo generazionale, è sociale».
Però abbiamo visto una protesta trasversale, a differenza della Russia dove il dissenso fuori dalle capitali è molto scarso, in Bielorussia c’erano marce oceaniche a Minsk, ma anche in tutti i capoluoghi regionali, e perfino nelle campagne.
«Noi siamo un popolo piccolo, un popolo rurale che ha una grande tradizione di solidarietà. Certo, ci sono stati quelli che nascondevano i manifestanti dalla polizia, e quelli che denunciavano i vicini. Ma la nostra è una rivoluzione trasversale, ho visto perfino un borgo, 12 case davanti a una ferrovia, sventolare bandiere della protesta davanti ai treni. È una rivoluzione partita davvero dal basso. Il sentimento nazionale è maturato per anni, fino a che non ci siamo sentiti cittadini Bielorussiasi, non più ex sovietici che avevano perso la loro grande patria. Abbiamo tutti fatto nostra la bandiera bianco-rosso-bianca della protesta. Lukashenko non riuscirà a picchiarci tutti nel carcere di Okrestino».
Lukashenko conta sull’aiuto di Putin e Putin, per quanto senza troppo entusiasmo, glielo fornisce, perché teme che qualunque successore di Lukashenko sia più democratico e quindi inevitabilmente più filoeuropeo. Non ha paura che prima o poi, pur di rimanere al potere, Lukashenko possa cedere alle pressioni del Cremlino per riportare la Bielorussia dentro la Russia?
«Senza Putin Lukashenko sarebbe già collassato. Io temo che questo patto sia già stato stretto, che tutto sia accaduto, non sappiamo cosa abbiano firmato quei due e sappiamo che al confine con la Russia c’è una forte concentrazione di truppe russe. L’unica speranza è che qualunque accordo per riconsegnare la sovranità del nostro Paese a Mosca non avrebbe valore legale, in quanto firmato da un presidente illegittimo. Anche il programma di Svetlana Tikhanovskaya, la leader dell’opposizione in esilio, prevede stretti rapporti con Mosca, conservando però la sovranità del nostro Paese, e la lingua Bielorussiasa. Ma anche se i russi riuscissero a sostituire Lukashenko con un loro uomo, il popolo è molto deluso dal comportamento della Russia. Non siamo ancora diventati come gli ucraini che dicono ai russi “non siamo più fratelli”, ma ci stiamo avvicinando».
A proposito dell’Ucraina, perché è l’unica tra le tre grandi ex repubbliche sovietiche slave ad essere riuscita a diventare una democrazia?
«Io sono per metà ucraina, conosco molto bene quel Paese. Metà dell’Ucraina ha radici storiche in Europa, nell’impero austro-ungarico, in Polonia. In Ucraina sono nati i cosacchi, con il loro spirito libertario. Poi c’è stato il Holodomor, la terribile carestia organizzata dai bolscevichi negli anni ’30. Quando camminavamo per il villaggio della mia nonna ucraina lei mi mostrava sempre una casa dalla quale stare alla larga: quando sono diventata più grande, mi ha raccontato che lì abitava una donna che per fame aveva mangiato i suoi figli. È un trauma storico che non si dimentica».
Quando la polizia del regime ha cercato di fare irruzione nel suo appartamento di Minsk, i diplomatici dei Paesi UE sono arrivati a farle da scudo umano per salvarla dall’arresto. Gli ambasciatori però non possono andare a presidiare le case di ogni singolo oppositore. Cosa può fare l’Europa, cosa può fare l’Occidente, e cosa non hanno ancora fatto?
«Devono neutralizzare Lukashenko. L’Europa non possiede i meccanismi necessari a fermare un dittatore impazzito nel cuore dell’Europa. Bisogna agire su Putin, bisogna alzare il prezzo del sostegno a Lukashenko, fino a quando gli costerà troppo».
Cosa è mancato per completare la transizione verso la democrazia, in Bielorussia e in Russia?
«Credo che uno degli errori fondamentali sia stato quello di non aver mai condannato fino in fondo i crimini del Gulag. Ora vivo in Germania e vedo come la memoria e la colpa storica vengano affrontate tutti i giorni, come i tedeschi sono sempre all’erta per combattere l’Hitler che si cela in ciascuno. Noi ex sovietici non avevamo voglia, non avevamo tempo, c’era tanto altro da fare, un mondo nuovo da scoprire, dopo decenni di povertà e isolamento. Il boom dei consumi ha distolto la gente dalla guerra civile, ma l’idea sovietica è ancora molto radicata, è innestata in profondità. Sembrava però un’epoca finita, i ragazzi si annoiavano a leggere Arcipelago Gulag, perché parlava di cose che non li riguardavano. E poi si sono ritrovati a Okrestino, con un sacchetto di plastica infilato sulla testa per farli soffocare, con poliziotti che li picchiavano. Le torture. Le brande senza materassi, le celle senza acqua, i detenuti lasciati intenzionalmente senza carta igienica e con la puzza dagli scarichi otturati. Questi ragazzi non pensavano di poter venire trattati così. Per loro è stato uno shock. Una ragazza uscita da lì mi ha detto: “Ora leggerò Solzhenitsyn”. Oggi, noi viviamo in un libro di Solzhenitsyn».
Suona come una condanna storica.
«Shalamov diceva che potete uscire dal Gulag, ma il Gulag rimarrà dentro di voi. La nostra esperienza è stata quella di vita nel Gulag. Quando era arrivata la perestroika, noi correvamo per le piazze gridando “Libertà!”, ma non avevamo la più pallida idea di cosa fosse. La libertà non si può importare come importiamo le Bentley. Non potevamo immaginarci che non sarebbe arrivata in un attimo, che avrebbe richiesto decenni».
I famosi quarant’anni durante i quali Mosè ha fatto vagare nel deserto il suo popolo aspettando che morissero quelli che si ricordavano la schiavitù?
«Sì, e forse ci vorrebbero altri trent’anni. Però i nostri ragazzi sono la nostra speranza. Pecchiamo spesso di condiscendenza verso i nostri giovani, ma quanto sono migliori di noi! Non sono mai servili, hanno una dignità incredibile, e nessuno riuscirà a togliergliela».
Però Lukashenko non vuole che tornino in patria. Preferisce governare un popolo di vecchi nostalgici, senza progettare un futuro?
«La dittatura è sempre primitiva. È una forma di governo rozza. Ma anche se abbiamo abbandonato la piazza, non significa che abbiamo smesso di ribellarci. L’unico motivo per cui si scende all’inferno è la ricerca della resurrezione. Lukashenko produce rivoluzionari con le sue mani: arresta, tortura, umilia. Ormai non esiste una famiglia dove qualcuno non abbia subito la repressione. I nostri ragazzi capiscono tutto già a 13 anni. Per questo non ho dubbi che la rivoluzione vincerà. Il problema è quando, e a quale prezzo». —