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 2022  gennaio 08 Sabato calendario

Biografia di Marco D’Eramo raccontata da lui stesso

Lui dice che i ricchi hanno vinto su tutta la linea. E mentre lo dice il pensiero corre a Dominio, un libro sapidamente sociologico nel quale Marco D’Eramo ricostruisce una vicenda che forse non avevamo ben compreso in tutte le sue implicazioni. Forse per mancanza di categorie interpretative, dopotutto chi ha ancora il coraggio di richiamarsi ai testi di Marx e del marxismo? Già, ma c’è anche l’altra faccia della questione: a forza di appellarsi a Marx la sinistra si è ridotta a fare della scolastica, ma quando lo ha abbandonato non ha più saputo teoricamente a chi appoggiarsi. «Io» dice D’Eramo «ho cercato di fare il percorso inverso. Mi sono rivolto ai testi che i neoliberisti avevano scritto e l’ho fatto guardando a come li insegnavano quando ero a Chicago. Lì c’erano personaggi come Milton Friedman e i “Chicago Boys” che hanno polverizzato Keynes e i keynesiani. Hanno messo nelle mani di Reagan e Thatcher delle armi micidiali per distruggere il welfare. Hanno fatto il lavoro di fino, poi sono arrivate le mazzate, che tradotte in parole hanno significato precarietà e dolore». È vero, penso io, ma poi c’è stato il 2008, la crisi di quel mondo. «Sì, sì. Ma ha fatto presto a riprendersi. Il problema sai qual è? Il problema è che quel “paradigma” è stato pienamente accettato dalla parte che doveva contrastarlo».
Come giornalista sei abbastanza anomalo. Hai sempre cercato di alzare lo sguardo oltre la cronaca.
Hai scritto libri interessanti come “Il maiale e il grattacielo” che è poi la tua esperienza degli anni che hai trascorso a Chicago. Hai scritto un altro libro sul turismo globalizzato e dici di essere parte della sinistra che ha perso. Che genere di sconfitto pensi di essere?
«Ma sai, credo che quella dello sconfitto rischi oggi di diventare una professione dalla quale mi tengo un po’ alla larga. Studio, penso, guardo quello che accade e a volte mi volto indietro, alla mia famiglia, ai miei genitori. Loro sì, due vinti dalla storia e in parte dalla vita».
Tua madre era Luce D’Eramo, scrittrice di talento e con una storia pesante alle spalle che ha riportato in quel libro bellissimo che è “Deviazione”. Lei è morta giusto vent’anni fa. Perché la definisci vinta?
«Perché uscì dalla catastrofe della guerra nelle condizioni peggiori. Trovò nella scrittura la forza di reagire, ma era pur sempre una resa quella che raccontava. Scappò via di casa e andò a lavorare nei campi di concentramento tedeschi: prima come ingenua volontaria fascista partecipante ai Littoriali, poi come deportata comunista. Fuggì da Dachau, lavorò come sguattera e contadina nella campagna di una Germania già sconvolta dalla sconfitta imminente. Cameriera in un albergo di Magonza, faceva parte delle squadre di volontari che scavavano le macerie dopo i bombardamenti, e lì, il 27 febbraio 1944, incontrò il suo destino nelle sembianze di una bomba al fosforo a scoppio ritardato che la lasciò paralizzata alle gambe. Il giorno dopo gli americani entrarono a Magonza».
Come fu la sua vita nel dopoguerra?
«Povera e disperata. Quando tornò in Italia Luce – che in realtà si chiamava Lucette essendo francese – incontrò mio padre in un ospedale di Bologna. Si sposarono e nacqui io. Fu un matrimonio tra due sconfitti dalla storia. Mio padre non si era mai ripreso dalla guerra. Era stato fascista e militare della Decima Mas. Gentiliano, insegnò filosofia ai licei. Fu un uomo duro e insoddisfatto con cui ho avuto pessimi rapporti. Mi impartiva la sua educazione a suon di cinghiate che aumentavano di numero ogni volta che il dolore che provavo usciva straziato dalla mia voce».
Secondo te perché sposò tua madre?
«Forse perché mia madre nonostante fosse paralizzata era una donna seduttiva; o magari perché mio padre nel suo delirio di onnipotenza si immaginava come una specie di salvatore. Chi lo sa. In ogni caso dopo cinque anni si separarono. Dai cinque agli undici anni ho abitato con lui e non fu un bel periodo. Poi andai a vivere con la mamma. Eravamo talmente poveri da non sapere come fare per sopravvivere. Pensa che accettammo di buon grado di finire in una specie di ospizio per invalidi – credo che si chiamasse L’Oasi – oltre l’Ardeatina, dove venivano ricoverati i feriti gravi della guerra. Non era proprio La montagna incantata di Mann eppure vedevi questa gente aggrapparsi alla vita nei modi più sorprendenti».
Che età avevi?
«Ero già grandicello. Andavo al Tasso. Facevo la IV ginnasio. E tutte le mattine in bicicletta coprivo una quindicina di chilometri dalla clinica alla scuola.
Camilla Cederna, che era diventata amica di mia madre, ci spediva ogni tanto dei soldi. Alberto Moravia che aveva letto dei racconti di mia madre veniva a trovarci. Passammo un anno di stenti. Poi una dottoressa tedesca, che aveva curato mia madre nel 1945, ci invitò a stare un periodo da lei in Germania, dalle parti di Francoforte. Era un medico condotto con tre figli. Per imparare il tedesco frequentai nel periodo in cui restammo lì una scuola che era l’equivalente della nostra terza elementare. Tornati a Roma i miei provarono a rimettersi insieme, ma non funzionò. E fu di nuovo separazione».
Pensi di essere stato vittima di questa situazione?
«Vittima no, del resto non mi sono mai pianto addosso. Non mi sono lamentato di ciò che mi è accaduto. Nella malasorte ho avuto la fortuna di avere accanto una donna straordinaria. Una cosa che diceva spesso era: se stai su di una carrozzina la gente ti compatisce. Ma io non voglio farmi compatire. Io voglio che la gente non si fissi sulle ruote e mi guardi negli occhi. Era la sua forza e fiducia nella vita che è riuscita a trasmettermi. Ecco perché non mi sono mai sentito una vittima. Bensì un ragazzo con un futuro aperto».
Che studi hai fatto?
«Ho un percorso anomalo. Mi sono laureato in fisica.
Ero nel gruppo con Giorgio Parisi. Lui, già allora si vedeva, era un genio. Gli anni sono dal 1966 al 1971.
Lavoravo con Marcello Cini e Carlo Di Castro. I nostri maestri erano Amaldi, Cabibbo, Salvini, Bernardini.
Una scuola di altissimo livello. Provenivo da una famiglia amante delle belle lettere e la mia decisione fu di fare il biennio di fisica per poi passare a filosofia. Alla fine mi laureai in fisica. Erano anni tumultuosi, bastarono perché scoprissi che la mia vocazione solo in parte coincideva con la ricerca scientifica».
A quel punto cosa accadde?
«Mi trasferii a Parigi iscrivendomi all’École Pratique des Hautes Études dove ho studiato sociologia con Pierre Bourdieu, ho partecipato ai seminari ristretti di Roland Barthes e seguito le lezioni di Michel Foucault. E quelle spaventosamente fluide di Gilles Deleuze.
Era capace di saltare di palo in frasca, con una naturalezza sorprendente. Nel 1978 sono rientrato in Italia, dove ho lavorato a Mondo Operaio: fu una bella esperienza sotto la direzione di Fausto Coen. Durò un paio di anni. Passai al Manifesto. Dopo alcuni anni di redazione, Luigi Pintor mi propose di andare in America. Rifiutai. Volevo restare a Roma e accettai di dirigere la cultura. Senonché mi ammalai seriamente e quando mi ristabilii mi sembrò difficile poter riprendere quello che avevo fatto. Chiesi a Pintor se l’offerta americana era ancora valida. E partii come corrispondente».
Perché scegliesti Chicago?
«Sarei potuto andare a Los Angeles o a New York.
Scelsi Chicago, perché la verità è che dai grattacieli alla finanza tutto è nato lì. Ecco, per me Chicago è stato ed è il personaggio narrativo che mi ha reso possibile raccontare il “romanzo di formazione del moderno”. Attraverso le peripezie, le avventure, le conquiste, le tragedie del personaggio Chicago è possibile leggere in filigrana la struttura del moderno».
Hai provato a leggere questa struttura del moderno anche analizzando il turismo di questi anni con “Il Selfie del mondo”.
«Mi pareva interessante comprendere più a fondo un fenomeno che coinvolge tutti. Tu pronunci la parola “turista” e immagini il tipo con il cappellino e le ciabatte ai piedi. Poi però ti accorgi che è una cosa serissima economicamente e antropologicamente.
Intanto siamo tutti turisti che disprezzano i turisti.
Amiamo definirci “viaggiatori”. Il sogno del turista è di andare in un posto dove non c’è che lui. Il turismo finisce così con l’associarsi alla libertà del mondo moderno. La sua nascita è stata resa possibile, da un lato, dalla rivoluzione tecnica: battelli a vapore, locomotive, treni veloci, aerei e navi da crociera; dall’altro da quella rivoluzione sociale che chiamiamo il tempo libero retribuito. Dalla confluenza di questi due aspetti è nato il concetto di vacanza».
Il selfie che c’entra?
«Il selfie è lo struggente bisogno di confermare la propria esistenza, possibilmente davanti a un monumento. È il lato culturale del turismo. In realtà penso che il turismo sia molto meno industria culturale e assai più industria pesante. Certo è capace di vendere merce immateriale, come il tramonto sull’Acropoli, ma per riuscirci deve mettere in atto un’industria che oltre all’onirico si avvalga dell’aeronautica, dell’elettronica, dell’edilizia e, ovviamente, di tutta quella forza lavoro spesso precaria o stagionale che rappresenta i servizi.
Ti senti più turista o viaggiatore?
«Siamo più o meno tutti nella stessa bolla globale.
Oggi una domanda così formulata sarebbe anacronistica. Mi illudo di essere come quegli ambiziosi viaggiatori di una volta in cui la meta raggiunta era parte di un’educazione già stabilita in partenza. Quando viaggiare era ancora un modo di scoprire l’altro da sé. Oggi siamo parte di un pacchetto aziendale e non ti puoi illudere di essere il solo intelligente del villaggio turistico. Siamo tutti scemi. Solo che il conformismo lo vediamo negli altri e non in noi stessi».
Sei anche vanitoso? Mi riferisco alla vanità intellettuale.
«Come tutti ho delle punte di vanità. Ma la vanità vera non è fatua, è drammatica. Come la storia di Narciso ci insegna, può spingere alla morte. D’altronde, nella vanità c’è anche la mancanza della consapevolezza del proprio orrore, di chi in fondo non riesce o non sa più guardare dentro se stesso. Una forma di rimozione. Più o meno è così. Vanità come antidoto alla paura della morte».
Tu la temi?
«A un certo punto sono stato in bilico tra la vita e la morte. Mi avevano diagnosticato un tumore ai polmoni, che poi risultò essere solo una grave polmonite. Ricordo che cominciai a distruggere una quantità non indifferente di documenti e di lettere familiari. Credo volesse essere una forma di congedo.
Ma non so spiegarlo chiaramente. La morte è anche uno strano gioco di coincidenze. Mio padre e mia madre morirono lo stesso anno. Era il 2001. Buffo no?
Come se dovessero ricominciare insieme un altro viaggio. Mentre di lui non ho nessun dettaglio, ricordo che nelle ultime settimane della sua vita mia madre aveva preso a parlare in polacco con la sua amica infermiera. Era la lingua del campo e non mi sorprende che avesse tempo prima firmato un contratto per scrivere la vita di Etty Hillesum, l’ebrea olandese morta ad Auschwitz. Era come misurarsi con una tragedia sapendo che almeno lei era sopravvissuta. Ricordo una frase pronunciata in una specie di delirio: “Ho fatto bene a fare un po’ di stravizi. Ho bevuto buoni vini e mangiato manicaretti”. Fu quello il suo ultimo omaggio alla vita».